Declino demografico e coscienza di classe

—   Lettura in 3 min.

Ancora un dato deprimente: le nascite in Italia hanno battuto un nuovo record. Sono ai livelli del 1918, e cioè ai livelli della demografia successiva alla fine della grande guerra. Il divario tra nascite e morti si allarga in favore delle  morti. Su 100 morti, 67 sono le nascite. Un dramma; peggio di una guerra, che fa il paio con i dati della produzione industriale che nell’ultimo anno ha subito un crollo del 4,3%; senza contare l’emigrazione italiana, ormai un’emorragia di energie, conoscenze e competenze perse a vantaggio di altre nazioni.

E la politica chiaramente assente. Oltre la ritrita proposta di incentivare l’immigrazione per sopperire la denatalità, non va. Non riesce a congegnare una ricetta di politica economica in grado di invertire il disastroso trend demografico (ed economico). E l’atroce sospetto è che non solo non possa, perché mancano le basi culturali ed economiche per comprendere la gravità della situazione, ma anche non voglia, sia nel senso di identificare le radici del “male” demografico e sia nel senso di decidere di cambiare approccio, qualora invece le abbia identificate.

In ogni caso, l’inerzia, cosciente o meno, è conclamata nei dati anzidetti. E i dati sono una sentenza inappellabile: la popolazione italiana muore, si dissolve. Lentamente, ma si dissolve. Le nascite non bastano più per garantire la tenuta demografica, economica e sociale del paese. E se anche importassimo immigrati per sopperire, non sfugge la consapevolezza deprimente che questa non è la corretta soluzione, perché questo genere di politiche implicitamente ammettono un disimpegno consapevole nell’invertire il decadimento demografico autoctono, battendo il sentiero dell’incremento delle nascite.

Per chi ancora non ha compreso, cercherò di essere più chiaro. L’immigrazione, quella massiva, quella legata essenzialmente a ragioni  politiche e ideologiche, è solo una soluzione apparente e illusoria, poiché incide marcatamente sugli equilibri culturali, economici e politici della nazione, stravolgendoli. Nel senso che si riverbera sul tessuto culturale della società, rimettendo obiettivamente in gioco le relazioni economiche e sociali createsi nella stratificazione degli eventi storici, economici e politici del secolo scorso (poi cristallizzati nella Carta fondamentale). Si pensi alle tutele lavoristiche e sociali: finché la massa dei lavoratori risulta essere figlia delle lotte sindacali e politiche che hanno portato al riconoscimento di quelle determinate tutele e quei determinati diritti in tutto l’arco del Novecento, nessuno, a livello politico, riuscirà a rimetterli seriamente in discussione, almeno nei capisaldi fondamentali (ma ci stanno lavorando). Nel momento però in cui la massa dei lavoratori, sotto-occupati, precarizzati, smette di riconoscere le proprie radici culturali in quelle lotte, tanto da non comprenderne l’importanza cruciale, quelle tutele potranno essere rimesse in discussione da chi ha un forte interesse a farlo.

Pertanto, denatalità e incremento dell’immigrazione di massa da una parte e globalismo economico-finanziario dall’altra (con annessa emigrazione), rappresentano, invero, le due parti di una morsa che mira a sterilizzare lo Stato-nazione informato ai principi costituzionali novecenteschi, frutto – sappiamo – di lotte di classe e istanze volte a rivendicare l’uguaglianza sostanziale con la sottomissione del capitale alla democrazia popolare.

Ci vuole davvero poco per capirlo. L’indottrinamento culturale che vuole i giovani precarizzati a vita, offrendo loro come contropartita la libertà di potersi muovere da un luogo all’altro del globo senza un passaporto (e dunque significativamente senza un’identità nazionale), lungi dall’essere reale strumento di emancipazione per quei giovani, diventa invero lo strumento di repressione più efficace (perché ingannevole) della loro libertà: quella dal bisogno, quella della stabilità economica e quella della sicurezza familiare. Cioè le libertà per le quali i nostri avi hanno lottato perché venissero riconosciute come libertà costituzionalmente tutelate.

Tornando dunque al problema demografico, è chiaro che esso si innesta perfettamente nel quadro ideologico neoliberista che vuole la progressiva destrutturazione dello Stato-nazione. Un popolo che pensa di essere “cittadino del mondo”, che pensa di sopperire con l’immigrazione di massa i propri deficit demografici, è un popolo destinato all’estinzione o a uno stravolgimento culturale, politico ed economico epocale e definitivo, attraverso il quale il capitalismo intende rimettere in discussione le conquiste sociali dei movimenti operai novecenteschi. Se infatti, da un lato, tutto è rimesso in gioco dalla propaganda dello scontro integenerazionale (il debito pubblico che pesa sulle nuove generazioni, che induce i giovani a rinunciare ai diritti sociali, soprattutto a quelli previdenziali), dall’altra la denatalità unita all’immigrazione massiva rimuovono la coscienza di classe come strumento di riaffermazione della democrazia popolare sul dominio capitalistico.

Invertire la rotta si può. Si deve solo avere la forza e la volontà di farlo, nel solco del quadro dei principi costituzionali fondamentali, che ben definiscono quali siano i compiti inderogabili della Repubblica. E del resto, se le altre soluzioni non servono o risultano palesemente inefficaci per gli obiettivi che ci si è dati, evidentemente servono a qualcos’altro.

Iscriviti sul mio canale Telegram @ilpetulante per rimanere aggiornato sui nuovi articoli