— Lettura in 4 min.
Secondo i nipotini di Hayek e Von Mises – quelli che vorrebbero privatizzare anche l’aria che si respira nell’errata convinzione che un imprenditore la renderebbe più pura solo perché ne trarrebbe un profitto – nazionalizzare è brutto, bruttissimo; roba da statalisti. Alcuni di loro – caso mai accadesse – arrivano a paventare persino improbabili e ridicoli scenari venezuelani, e altri addirittura il ritorno del comunismo.
Chiariamo ancora una volta una evidente verità: collettivizzare l’economia è un conto. In tal caso lo Stato diventa l’unico player economico che elimina quelli privati, diventando così il monopolista del mercato. Questo sistema – ed è sotto gli occhi di tutti – ha mostrato tutti i suoi limiti ed è stato sconfitto dalla Storia, tanto che difficilmente potrà mai tornare in auge.
Altra cosa però è nazionalizzare i cosiddetti monopoli naturali e mantenere forte la presenza dello Stato nei settori strategici, e cioè quegli ambiti economici che per la caratteristica dei beni e dei servizi offerti, o non consentono la concorrenza di mercato (e che dunque rappresentano la negazione stessa del mercato), ovvero richiedono comunque una forte presenza dell’interesse collettivo. Tali ambiti sovente si concretizzano in un servizio di interesse nazionale (infrastrutture, energia, telecomunicazioni).
Ebbene, un player economico privato che detiene un monopolio naturale o una realtà economica strategica nella quale lo Stato è fuori dalla mischia, è una grave contraddizione democratica. E nel caso dei monopoli naturali, è persino una contraddizione logica ed economica che tradisce persino i principi fondamentali del liberismo: non solo il privato monopolista consegue utili che non vengono del tutto reinvestiti nell’attività economica (poiché logicamente vanno ad arricchire il titolare dell’azienda che detiene il monopolio naturale), ma non avendo nemmeno concorrenti, non è interessato ad offrire il miglior servizio al minor prezzo, ma tenderà a offrire il minor servizio al maggior prezzo possibile: ciò per massimizzare il proprio margine di utile, che in assenza di concorrenza è già di per sé alto.
E non è finita qui. Il processo di “privatizzazione” degli ambiti economici che rappresentano monopoli naturali o settori strategici, incentiva il fenomeno del cosiddetto “capitalismo di relazione“, e cioè di quel capitalismo fondato non su una sana concorrenza, ma sui forti legami con il potere politico. Ed è quel fenomeno nel quale, sovente, a fronte della privatizzazione dei profitti, vede, nel caso di crisi, la socializzazione delle perdite, con un danno non indifferente per la collettività, che non gode pienamente dei benefici, ma si accolla inevitabilmente i costi.
Proprio per queste ragioni e per altre evidenti, i monopoli naturali dovrebbero essere controllati dallo Stato, e cioè nazionalizzati, e nel caso dei settori strategici, lo Stato dovrebbe giocare un ruolo fondamentale come player economico, in parte per calmierare il mercato e in parte per esercitare il controllo su settori vitali per l’esercizio della democrazia.
Nazionalizzazioni e presenza dello Stato nei settori strategici diventano così strumento di tutela dell’interesse collettivo e di tenuta democratica nel quadro costituzionale. Lo Stato – è noto – non è interessato a ottenere un profitto: dunque l’utile netto ottenuto dalle attività negli ambiti economici anzidetti, viene giocoforza reinvestito totalmente nel servizio. Addirittura, quanto meno nel caso dei monopoli naturali, lo Stato potrebbe persino decidere di non far pagare un prezzo per il servizio di monopolio, o di farne pagare uno simbolico e non proporzionato (tassa).
Ora alcuni affermeranno: «Eh, ma lo Stato è inefficiente ed è sprecone. E poi vuoi mettere gli stipendifici e le poltrone?»
Banalità! E’ chiaro che la questione dello Stato inefficiente e sprecone è una questione di mala cultura politica e amministrativa (non solo italiana) che non giustifica in nessun caso la privatizzazione dei monopoli naturali e l’assenza dello Stato nei settori strategici. Questa è solo propaganda volta a indebolire lo Stato e conseguentemente la democrazia, onde sottoporre i processi decisionali al placet dei detentori dei capitali finanziari. Semmai, proprio perché si è consapevoli che in questi ambiti economici la presenza dello Stato è vitale ed è necessaria, i cittadini dovrebbero essere spinti a richiedere la massima trasparenza nella loro gestione e nella loro erogazione. Essi del resto hanno l’arma del voto come metodo di persuasione; mentre quest’arma è del tutto spuntata se l’erogatore del servizio è un privato, o è solo il privato.
Purtroppo però questa consapevolezza oggi non esiste. Esiste semmai la consapevolezza – ben instillata da decenni di propaganda neoliberista ed eurista – che lo Stato è per sua natura inefficiente e sprecone, e che dunque il “miglior” sistema per erogare un servizio pubblico è privatizzarlo (chissà perché!). E’ chiaro però che in questo caso, il servizio non risponderà più del tutto all’interesse collettivo, ma a un interesse privato. E quando un servizio collettivo risponde a un interesse privato, il sistema democratico e il benessere sociale vengono di fatto pregiudicati e neutralizzati in favore delle logiche del profitto.
Del resto, sintomo evidente di questa degenerazione culturale ed economica, lo vediamo nel costrutto europeista dove domina il leit motiv sui “mercati” che non bisogna far arrabbiare, che bisogna tener calmi, che bisogna ascoltare e sui cui desiderata bisogna prendere le decisioni politiche (troppo spesso in barba al responso popolare), perché altrimenti sale lo spread che impedisce allo Stato di finanziarsi sui mercati privati (in quanto non più detentore del monopolio della moneta, divenuta così artificialmente scarsa).
A tal proposito significative sono le parole de Il Pedante (noto blogger), che riassumono in poche battute quanto spiegato precedentemente: “Se privatizzi lo Stato, ottieni un altro Stato: di proprietà privata, con gli stessi difetti, dove tu però non conti un cazzo!“. Ed è assolutamente vero.