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La Corte Costituzionale non ha dato scelta: o il Parlamento legifera oppure ci penseranno i giudici con una sentenza. Non ci sono alternative. Il Parlamento non può decidere di non decidere, e questo suggerisce quanto oggi la sovranità parlamentare sia regredita rispetto al passato. Perché anche non decidere è una manifestazione di sovranità, che però – a quanto pare – la Corte Costituzionale non contempla.
Dunque il Parlamento deve fare una legge sull’eutanasia, aprendo così le porte a una degli istituti più nefasti concepiti da mente umana dopo l’aborto, non solo perché rende un evento negativo e definitivo un “diritto”, ma anche perché costringe un medico a dare la morte, anche qualora ciò vada contro i suoi principi. In tal caso viene innestato nella civiltà giuridica il concetto della vita come bene non assoluto e non disponibile, ma come bene relativo e disponibile. Sicché di esso si può disporre come di un qualsiasi altro bene, non considerando le terribili implicazioni che questo comporta.
La verità è che verrà aperto un varco etico pericoloso, che nel tempo ci porterà, volenti o nolenti (la finestra di Overton insegna), verso l’eutanasia dei minori, dei depressi, delle persone stanche di vivere, dove la sofferenza è un concetto talmente ampio da ricomprendere non solo la sofferenza fisica estrema (tipica delle malattie terminali), ma anche quella psicologica, compresa la noia e persino quella dei famigliari che assistono il malato. Sicché si arriverà a giustificare l’eutanasia anche per ragioni velleitarie, soggettive, legate a motivazioni che poco o nulla hanno a che vedere con la sofferenza vera, trasformando la morte in un diritto assoluto e incontestabile, se non addirittura insuscettibile di essere destinatario di convincimento contrario.
E’ un paradosso, ma l’eutanasia opera proprio sul piano sottile dei concetti: se fino a oggi (o comunque fino a quando non venne approvata la legge sull’aborto) la vita era considerata un bene assoluto e indisponibile, tutelabile dal concepimento e fino alla morte naturale, con l’eutanasia è la morte a diventare un bene assoluto e indisponibile, sul presupposto della sofferenza di cui – come ho detto – nel tempo verrà ampliato il concetto, fino a ricomprendere casi come la stanchezza del vivere e la depressione, o l’anzianità della persona, intrecciando così la sua evoluzione giuridica con quella utilitaristica tipica delle società neoliberiste, dove la persona improduttiva viene vista come una mangiatrice di welfare e un costo che deve essere il più possibile compresso o eliminato.
Vero è che tutte queste sono considerazioni che, per quanto valide e condivise autorevolemente, sono destinate a non avere alcun rilievo nel dibattito (e anzi, vengono viste con astio e sospetto). Il Parlamento, d’altro canto, è comunque costretto a legiferare qualsiasi cosa che si chiami eutanasia, altrimenti sarà la Corte Costituzionale che deciderà al suo posto. Dunque, l’unica soluzione realistica è cercare di limitare i danni e fare pressione sui gruppi politici affinché venga confezionata una legge che se da una parte riconfermi la tutela della vita, dall’altra limiti la “dolce morte” solo per i malati terminali, ponendo dunque dei paletti giuridici insuperabili e prevedendo l’obiezione di coscienza e le cure palliative come una valida alternativa. Ciò eviterebbe che il realtivismo distruttivo dilaghi e si verifichino in Italia le aberrazioni frequenti nei paesi dell’eutanasia e dell’aborto libero. E’ poca cosa, ed è certo che non è quello che vorremmo, ma è pur sempre qualcosa rispetto al baratro aperto dalla finestra di Overton.