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Cambiare la narrativa (neo)liberista ed eurista in Italia è quasi impossibile. Almeno lo è oggi, visto il dominio pressoché totale della logica liberista e mercantilista che considera l’industria pubblica di Stato un programma politico-economico vetusto che puzza troppo di socialismo. E certo non ci si può aspettare un pensiero diverso dalla destra cosiddetta “sociale”, che oggi è più liberista di Enaudi. E ancor meno ci si può aspettare l’idea di un piano industriale pubblico da parte della Lega, che – signori – è socialista quanto io sono eurista. Cioè zero.
Eppure l’Italia avrebbe urgente bisogno di un vero e significativo piano industriale pubblico, come un asmatico ha la necessità impellente dell’aria da respirare, e ciò poiché ci permetterebbe di recuperare il gap economico e sociale perduto in questi vent’anni di neoliberismo, e poi perché recupereremmo quasi totalmente lo spirito primigenio della Costituzione del 1948, attualmente ignorato a tutti i livelli.
Ma – dicevo – è difficile che ciò accada oggi o prossimamente. Il paradigma neoliberista è ancora forte, e ha mutato geneticamente i movimenti e i sindacati di sinistra (e non è che nella destra d’area sociale le cose vadano meglio), creando quella forma efficace di gatekeeping che impedisce che l’opinione pubblica prenda piena contezza dell’inganno neoliberista attraverso il quale vengono erosi i diritti sociali, la sicurezza lavorativa, le tutele e le protezioni conquistate in decenni di lotte di classe.
Il risultato è la convinzione diffusa che l’industria pubblica sia un “male” per il nostro paese e che sia meglio che non solo certe industrie strategiche per l’interesse nazionale (anche economico) siano gestite dai grandi poli industriali famigliari e/o internazionali, ma addirittura che lo siano persino quelle attività che generalmente, per la loro caratteristica di monopoli naturali, richiederebbero il pieno controllo pubblico.
Ci si aspettava – almeno inizialmente – che il Governo attuale possedesse gli strumenti e le capacità per capire quanto fosse urgente e necessario un piano industriale pubblico che riportasse il nostro paese fra i primi posti della classifica dei paesi più industrializzati e benestanti del globo, e invece, più passa il tempo e più sembra palese che la maggioranza attuale non intende in alcun modo (per limiti culturali o semplicemente per volontà e convinzione) procedere a un mutamento della narrativa, assumendo le decisioni necessarie: uscita dall’euro, tutela dei risparmi e piano industriale pubblico per incrementare la domanda interna. Tutt’altro, prosegue verso il rafforzamento del paradigma eurista/neoliberista, propalando idee e proposte di legge che mandano il chiaro messaggio che il “pubblico” è soltanto inefficienza e corruzione e che c’è bisogno di più “privato”.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: deflazione salariale, disoccupazione oltre il 13%, 5/6 milioni di poveri e l’economia italiana che ogni anno raggiunge primati negativi sempre più deprimenti, irreversibili senza un’energica inversione di rotta che però la classe politica attuale purtroppo non può o non intende effettuare.