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La nostra Costituzione disegna un preciso modello economico costituzionale. Un modello che i nostri padri costituenti hanno elaborato sulla base di una sintesi tra le differenti sensibilità economiche che parteciparono alla stesura della carta. Ecco dunque un modello peculiare e sui generis che cerca di coniugare mercato, libertà e solidarietà sociale.
Naturalmente, come è filosofia di questo blog, l’articolo non è rivolto ai costituzionalisti, né agli studiosi di Costituzione che già hanno presente di cosa io voglia parlare, ma è rivolto a chi ignora, per mancanza di informazione, per disinteresse o semplicemente perché nessuno glielo ha detto (è normale in un mondo dove l’accesso all’informazione è garantita, mentre non lo è la sua comprensione), cosa sia questo modello e perché oggi più di ieri esso è disatteso, derogato e finanché contraddetto (#UE).
Orbene, quali sono esattamente i pilastri del modello economico costituzionale? Domanda da 1 milione di dollari… pardon, euro.
Prima di tutto gli articoli strettamente incriminati[1. In realtà il modello economico costituzionale è un modello complesso, che richiede la comprensione di altre norme costituzionali. A titolo di esempio, gli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost.] sono appena sette e stanno tutti all’interno del Titolo III, dedicato ai Rapporti Economici. E sono gli articoli che vanno dal 41 al 47. Secondo, per alcuni questo modello rappresenterebbe la prova provata (in termini penalistici diremmo che siamo davanti a un indizio grave, preciso e concordante) che la nostra non è una Costituzione liberale, ma è una Costituzione socialista. Sull’argomento ho già speso un paio di parole (quelle che merita la questione e l’ho linkato più su). Qui solo per ribadire il concetto: l’idea che esista una Costituzione #socialista (o socialdemocratica), è un’idea balzana, perché significa attribuire alla Carta un preciso connotato ideologico. Per quanto non si neghino le influenze socialiste sulla nostra carta (e sarebbe da stupidi negarlo), il modello economico costituzionale è talmente particolare da essere considerato se non un unicum, quanto meno una plastica rappresentazione dello sforzo di sintesi delle diverse ideologie politiche ed economiche che hanno animato la #costituente del 1948.
Detto ciò, è chiaro che il modello economico costituzionale disegna le proprie linee portanti sul rapporto economia pubblica ed economia privata. Tra la libera iniziativa economica e l’iniziativa economica pubblica. Un rapporto che si vuole dinamico e non certo rigido (attraverso l’assegnazione pre-costituita di competenze di mercato esclusive), nel quale il cittadino è libero di esercitare un’attività economica privata, senza alcun limite che non sia – recita la Costituzione – l’utilità sociale, o il non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (v. art. 41, comma 1 e 2; cfr. art. 2, 4 e 36 Cost.). Che certo limiti non sono e che semmai rappresentano la capacità di incrementare non solo la ricchezza di chi esercita l’attività d’impresa, quanto anche quella della collettività che usufruisce dei benefici di quell’iniziativa, in un contesto in cui la dignità, la sicurezza e la libertà siano rispettati.
Una filosofia politica ed economica che rifugge il becero e fallimentare #collettivismo, garantendo la piena libertà d’impresa, pur ponendola però davanti alle proprie responsabilità e alle proprie contraddizioni; quelle che il #liberismo vuole negare, assegnando alla libera iniziativa economica poteri taumaturgici che non ha. Per quanto, infatti, si voglia ritenere che la libertà di impresa rappresenti (ed è vero) l’ossigeno e la vitalità del tessuto connettivo sociale (tanto da essere stata elevata essa stessa a valore costituzionale), è altrettanto vero che essa da sola non è in grado di risolvere le asimetrie sociali e le diseguaglianze tipiche di una società puramente capitalista. Ed ecco dunque la ragione ultima delle condizioni previste al comma 2 dell’art. 41, considerate non tanto come un limite all’iniziativa economica privata, quanto come un obiettivo della stessa.
Ma è altresì vero – ed è vero – che l’iniziativa privata da sola non basta, quand’anche qualificata, in particolare, dall’utilità sociale. Nelle dinamiche economiche, la sola presenza del privato, il cui scopo primario comunque è il profitto, è limitante per uno sviluppo economico sostenibile e rispettoso dei principi di #uguaglianza e #solidarietà sociale (v. art. 2 e 3 Cost.). Anche perché non si può comprimere eccessivamente l’iniziativa economica privata, portando l’utilità sociale alle sue estreme conseguenze: sarebbe come attribuire al privato un ruolo e una funzione che non gli competono. Il privato deve liberamente ricercare il profitto, e seppure nei limiti ragionevoli dell’utilità sociale e dell’imprescindibile rispetto della libertà, della sicurezza e della dignità umana, questi confini mai dovrebbero essere assurti a scusa ideologica generalizzata per negargli questo diritto (cfr. art. 42, comma 3).
Dunque? Dunque ecco che entra in gioco l’iniziativa economica pubblica. Lo Stato – nel modello economico costituzionale – non è solo il poliziotto o il manovratore che vigila sugli operatori economici privati e interviene per correggere le asimmetrie. In alcuni casi, diventa egli stesso attore economico e si cala nella parte dell’imprenditore. Ciò è tanto più evidente quanto è rilevante l’attività interessata nel quadro complesso della tutela degli interessi nazionali e della preservazione della #sovranità.
In questo (apparente) semplice rapporto dicotomico tra iniziativa pubblica e privata, se da una parte riecheggia decisamente la filosofia portante dell’economia keynesiana (e non è un caso che il vecchio art. 81 Cost.[1. Naturalmente mi riferisco al testo anti-modifica. Infatti, come ho già ricordato qui, l’art. 81 Cost. è stato modificato nel 2012, con legge cost. n. 1/2012, proprio per favorire il pareggio di bilancio. Ne parleremo diffusamente in più occasioni. Qui basti sapere che fu una delle riforme scellerate per favorire la cessione di sovranità economica.], per quanto richiedesse le coperture, preservava quelli che sono i caratteri salienti del modello keynesiano, con la possibilità per lo Stato di fare politiche anti-cicliche e in deficit, qualora queste si rendessero necessarie), dall’altra la tutela del #risparmio, attraverso il controllo, l’esercizio e la disciplina del credito (art. 47 Cost.), garantisce che il modello economico costituzionale non venga compromesso o condizionato nelle proprie finalità e nel proprio impianto, dalla speculazione finanziaria (ma ne parleremo meglio in altra sede).
Non ci si può addentrare oltre nella complessa discussione, non fosse altro che l’argomento è l’oggetto del blog, più che di un singolo articolo. Vero è che quanto è stato detto più su, tanto basta per comprendere un concetto essenziale, che certamente non sfugge ai tanti: il modello economico costituzionale, che si prefigge finalità perequative, di giustizia sociale senza comprimere la libera iniziativa economica privata, non è più attuato ed è andato “perduto”. Esso non è più il cuore pulsante dell’azione economica e politica del Governo e del Legislatore. Questo modello è stato completamente e integralmente sovvertito (se non sostituito) con il modello europeista, che poggia su una filosofia economica completamente opposta (cfr. art. 2 TFUE, nella parte in cui asserisce che l’Unione Europea si «basa sulla stabilità dei prezzi» e «su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva»). Approfondiremo più avanti.