Il principio di uguaglianza tra forma e sostanza

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Parlare del principio di uguaglianza non è affatto semplice. Anzi, per dire la verità, non è per nulla agevole e si rischia di scadere nella retorica per un verso e nella mera disamina tecnico-giuridica, per l’altro. Eppure, è chiaro che il principio di #uguaglianza è – direi – cruciale in una democrazia compiuta, ma è anche vero che spesso si è utilizzato questo principio per scardinare, relativizzare e in alcuni casi vuotare le regole della convivenza civile, orientandole ideologicamente verso costrutti sociali assolutamente sterili e forieri di diseguaglianze se non anche di danni evidenti per l’interesse nazionale, l’interesse sociale e persino per la realizzazione e l’attuazione dello stesso principio.

Il principio di uguaglianza ha radici relativamente antiche. Se ne parlava certo nella Grecia antica, ma la verità è che la sua concettualizzazione moderna ha solo qualche secolo di vita (v. Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America: «Tutti gli uomini sono creati eguali»). Limitandoci al nostro paese, il principio di uguaglianza venne sancito dallo Statuto Albertino (art. 24) e poi riformulato e rafforzato nella Costituzione vigente, all’art. 3.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Questa prima parte dell’art. 3 è chiaramente di ispirazione liberale, perché enuncia l’uguaglianza formale, seppure con un correttivo: la dignità sociale, assente nell’art. 24 dello Statuto Albertino. Indipendentemente dallo stato personale (status, sesso, religione, razza, opinioni politiche e così via), le persone sono dunque tutte eguali davanti alla legge e hanno pari dignità sociale, che significa che il cittadino non solo è considerato eguale davanti alla legge, ma che egli deve essere considerato eguale anche in ragione della propria dignità sociale. Interessante è sul punto l’intervento del costituente Laconi, a proposito della discussione se tenere o meno questo concetto:

«Noi riteniamo che questo concetto debba essere mantenuto e, se anche la dizione «trattamento sociale» può o potrebbe prestarsi ad equivoci o risultare poco chiara, pensiamo che debba risaltare almeno il suo contenuto essenziale: il fatto, cioè, che ad ogni cittadino compete nell’ordinamento sociale italiano una pari dignità sociale, qualunque sia la sua condizione e l’attività che svolge».

Dignità sociale dunque come dignità umana (v. nota sotto). La sola uguaglianza dinanzi alla legge non basta, poiché questa può comunque giustificare trattamenti che possono essere contrari alla dignità sociale e umana della persona (cfr. art. 27 Cost., comma 3), senza contare che difficilmente gli uomini possono essere considerati eguali se non esiste pari dignità sociale.

Chiaramente, il principio di eguaglianza così formulato, benché ineccepibile, non può essere considerato completo, soprattutto per via della necessità di relazionare l’uguaglianza formale alla dignità sociale e umana. Vero è che al primo comma viene statuito un principio meramente formalistico: lo Stato non viene impegnato nel rimuovere le diseguaglianze sociali (e dunque quelle diseguaglianze che offendono la dignità della persona); egli non è l’attore della realizzazione dell’uguaglianza, ma il semplice spettatore. In un’ottica liberale, questo è il massimo che può essere concesso al potere statale. Non così in un’ottica sociale.

La vera “rivoluzione”, dunque, viene fatta con il secondo comma dell’art. 3, che introduce il principio di uguaglianza sostanziale:

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

L’azione statale è impegnata nel rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono la piena realizzazione umana del #cittadino, e dunque l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Ma attenzione: questa norma spesso è stata fraintesa, nei termini in cui obbligherebbe lo Stato a creare lavoro per realizzare il principio di uguaglianza sostanziale. Non è ovviamente così: quand’anche non sia questo il contesto nel quale parlarne, si può affermare che seppure sia vero che lo Stato viene costituzionalmente impegnato nel rimuovere gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione umana e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, è altrettanto vero che tale impegno non può certo profondersi in politiche di stampo assistenzialista; l’impegno statale, preordinato alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale, è invece ben definito negli articoli della Carta che disegnano il modello economico costituzionale (artt. 40 e ss.). In altre parole, lo Stato deve poter intervenire nelle dinamiche economiche (ne ha il dovere e il diritto) per favorire la piena occupazione, senza che questo intervento si traduca impropriamente in una mera politica assistenzialista [1. Sul concetto di uguaglianza sostanziale e su quello di dignità sociale, nonché sul ruolo dello Stato nel perseguire l’obiettivo statuito al comma 2 dell’art. 3, non possono non soccorrere pure le parole di Piero Calamandrei a proposito dei diritti sociali: «Il compito dello Stato a difesa della libertà non si racchiude nella comoda inerzia del laissez faire, ma implica una presa di posizione nel campo economico ed una serie di prestazioni attive nella lotta contro la miseria e l’ignoranza…» in quanto «un uomo che ha fame non è libero perché, fino a quando non si sfami, non può volgere ad altri i suoi pensieri…» (Piero Calamandrei, Costruire la democrazia, premesse alla Costituente, Le Balze, 103-105).].

Infine, è da notare che quando l’art. 3 fa riferimento al principio di uguaglianza, parla di cittadini, mentre quando si riferisce alla rimozione degli ostacoli che possano impedire la partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, parla di lavoratori. Il termine, che per alcuni evoca l’ideologia socialista, ha chiaramente un suo perché, e questo perché risiede prima di tutto nel fatto che il lavoro è un elemento qualificante della #Repubblica, tanto che il richiamo ai lavoratori doveva essere parte dell’art. 1 Cost., ed è principio ai sensi dell’art. 4 Cost. E poi perché con questa asserzione, si intende impegnare lo Stato affinché il lavoratore (inteso in senso ampio, come già precisato) possa effettivamente partecipare alla vita politica del paese, senza che vi siano ostacoli economici e politici (e dunque discriminazioni) che possano impedirlo. Lavoro in questo caso è inteso principalmente come libertà e dignità sociale (v. comma 1), e non già come appartenenza di classe.

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