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In questi giorni non si parla d’altro che della querelle sulla “Diciotti” e sulla decisione dell’attuale ministro dell’Interno di non autorizzare lo sbarco degli immigrati raccolti dalla nave della Guardia Costiera durante un’operazione in alto mare, le cui conseguenze sono state l’apertura di un procedimento penale a suo carico per sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale. Reati particolarmente gravi, che hanno diviso l’opinione pubblica e hanno creato non poche tensioni.
La domanda che qui mi pongo è essenzialmente una: è sempre opportuno o necessario che un atto politico sia soggetto al vaglio penalistico? La risposta, chiaramente è no, e vediamo perché.
E’ incontestabile che il ministro dell’interno sia titolare di una serie di poteri e prerogative: è responsabile della pubblica sicurezza ed è responsabile dei flussi migratori e dell’accesso degli stranieri nel territorio dello Stato. Queste responsabilità richiedono, sovente, un vaglio eminentemente politico delle situazioni in itinere, che riflette necessariamente il perseguimento e la tutela di un preciso indirizzo politico e più in generale dell’interesse nazionale, sia sotto il profilo della sicurezza dei cittadini e sia sotto il profilo dell’applicazione delle leggi di contrasto all’immigrazione clandestina. Se è pur vero che queste decisioni debbano essere adottate nel rispetto della persona e della dignità umana (e non potrebbe essere altrimenti, visti gli artt. 2 e 3 della Costituzione), è anche vero che nei casi in cui siano coinvolti gli interessi nazionali e l’atto sia una manifesta estrinsecazione della volontà politica, la censura penale diventa estremamente critica.
Beninteso, questo non significa garantire o istituzionalizzare l’impunità di un ministro o di un Governo, ovvero riconoscere al potere esecutivo il potere di agire al di sopra della legge. Significa semplicemente ritenere che il vaglio dei profili penalistici dell’azione politica di un ministro o di un Governo, deve essere un vaglio di prerogativa degli organi politici in ossequio alla separazione dei poteri (così era nella legislazione previgente).
E non è un caso che, proprio per evitare che il potere politico fosse succube del potere giudiziario, e dunque da questo venisse condizionato nella determinazione e nell’attuazione dell’indirizzo politico, i padri costituenti inserirono l’art. 68 Cost., vecchia formula (di cui parlerò meglio in futuro), che sottoponeva al vaglio delle Camere, l’autorizzazione a procedere penalmente nei confronti dei membri del Parlamento. Questa norma sappiamo poi è stata modificata, offrendo attualmente una formulazione diversa e più debole: oggi l’autorizzazione a procedere per i procedimenti penali in capo ai membri del parlamento non esiste più; esiste solo l’autorizzazione a procedere nei casi di perquisizione personale o domiciliare, ovvero di arresto, fermo o detenzione (e sempre che ciò non sia conseguenza dell’esecuzione di una sentenza di condanna divenuta irrevocabile). Odiernamente dunque è possibile sottoporre a procedimento penale un parlamentare, senza la preventiva autorizzazione della camera di appartenenza.
D’altro canto, proprio in merito ai reati ministeriali, la riforma del 1989 ha invece previsto l’autorizzazione a procedere per i ministri indagati per i predetti reati. Ma non è affatto un miglioramento: è un peggioramento, perché la riforma trasferisce in capo alla magistratura ordinaria i poteri inquirenti e giudicanti prima appartenenti alle Camere. In altre parole, l’iniziativa sui reati ministeriali diventa un’iniziativa giudiziaria sulla quale le Camere devono dare la loro autorizzazione, che oggi, sulla scorta dell’ondata giustizialista, diventa quasi un atto dovuto.