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La nostra Costituzione non prevede un criterio di attribuzione della #cittadinanza. A mio avviso sarebbe stato più che opportuno stabilire che la cittadinanza si acquisisse tramite il criterio dello #ius sanguinis, prevedendo che la legge stabilisse ulteriori requisiti residuali di carattere non generale, ma del tutto eccezionali (es. matrimonio). Purtroppo però il nostro costituente non ha ritenuto opportuno inserire questa norma, e non ha nemmeno stabilito che la legge sulla cittadinanza fosse legge che richiedesse particolari maggioranze qualificate, sicché per modificarne i requisiti fosse necessario coinvolgere necessariamente il consenso della minoranza parlamentare.
Nulla di tutto ciò. I criteri di attribuzione della cittadinanza vengono previsti da una semplice legge ordinaria e addirittura potrebbero venire modificati con il voto di fiducia, come era intenzione del Governo precedente, che intendeva introdurre lo ius soli temperato e lo ius culturae, ponendo il voto di fiducia sul disegno di legge; per varie vicissitudini politiche e per una forte reazione popolare avversa, il passato Governo aveva però deciso – e direi fortunatamente – di rinunciare al proposito.
La questione che mi pongo è se lo #ius soli e lo #ius culturae, siano comunque compatibili con la nostra Costituzione. Ma prima di affrontare la questione, è necessario sottolineare che il criterio dell’attribuzione della cittadinanza per nascita sul suolo dello Stato (ius soli) e/o per aver concluso un ciclo scolastico (ius culturae) sono criteri di per sé rispondenti a precise esigenze demografiche ed economiche che oggi appaiono del tutto incompatibili con le problematiche della società italiana, e che anzi, proprio per queste problematiche, rischiano di risultare altamente dannosi per l’Italia. Sia lo ius soli e sia lo ius culturae rappresentano infatti il mezzo attraverso il quale si intende stimolare il popolamento o il ripopolamento di un territorio a basso tasso demografico, che necessita di una veloce capitalizzazione di manodopera a basso costo, a fronte però di un forte sviluppo industriale ed economico. E non è un caso che, soprattutto lo ius soli, sia il criterio di attribuzione della cittadinanza nei paesi del continente americano, i quali però da un po’ di tempo stanno considerando l’idea di modificare il criterio di attribuzione della cittadinanza verso il più statico ma sicuro ius sanguinis.
Il quadro economico-sociale dell’Italia non richiede in alcun modo che vengano allargate le maglie della cittadinanza. La nostra produzione è in forte crisi per via delle politiche di austerità, e l’inverno demografico che affligge il paese da anni, per quanto allarmante, è connesso proprio alla crisi economica e all’impossibilità per i giovani italiani di trovare la giusta stabilità economica nell’età (più) fertile. Sicché, per invertire la tendenza, non è certo necessario innestare “nuovi” cittadini, bensì è necessario recuperare il modello economico costituzionale e attuare forti politiche espansive e di sviluppo attraverso un deciso intervento dello Stato nell’economia che permettano ai giovani, nella stabilità lavorativa, di crearsi una #famiglia e di evitare di cercare occasioni lavorative all’estero (è necessario qui ricordare che l’Italia è altresì afflitta da una forte emigrazione giovanile).
Se questo è vero, è semmai proprio l’assenza di politiche anticicliche nel solco del modello costituzionale e il fenomeno delle immigrazioni globali di massa, che inducono a ritenere che il criterio della cittadinanza debba essere reso ancora più rigido e selettivo. L’accesso facilitato alla società di forti elementi culturali ed etnici, spesso incompatibili con l’identità culturale della popolazione residente – peraltro in un quadro di forte competizione economica causata della cronica e istituzionalizzata “scarsità” lavorativa – è foriera infatti di gravi tensioni e conflitti sociali sezionali ed etnici, il cui risultato è la disarticolazione della coesione socio-identitaria della nazione, a sua volta destabilizzante del quadro costituzionale e istituzionale nel suo complesso.
Sono queste le ragioni primarie perché i criteri più larghi e vaghi di attribuzione della cittadinanza si pongono in contrasto relativo con la carta costituzionale. La quale, per quanto non abbia previsto alcun criterio preciso per l’attribuzione della stessa, non è certo un corpus che auspica e favorisce, né certo impone, l’alterazione dell’identità culturale-politica-sociale della nazione italiana attraverso l’innesto massivo di immigrati. Del resto, l’art. 10 tutela espressamente lo straniero, ma solo se egli è perseguitato nel proprio paese e lì non possa esercitare i diritti riconosciuti dalla Costituzione (v. qui). Al di là di questi casi, che si assumono come specifici ed eccezionali, il legislatore può e deve stabilire dei criteri selettivi di accesso al territorio dello Stato e, di conseguenza, di attribuzione della cittadinanza, che implica – sappiamo – l’esercizio dei fondamentali diritti politici, in grado per loro natura, di definire non solo l’assetto delle politiche economiche e sociali della nazione (seppure oggi in un contesto di limitata sovranità), ma anche l’identità fondativa del popolo che ha dato vita al patto costituzionale, basato su quei precisi valori.
L’assetto costituzionale lavoristico del nostro paese, identificato nel combinato disposto 1-139 Cost., sul quale poggiano (come fosse una piattaforma granitica) i principi 2-11 Cost. e le susseguenti norme economico-sociali definite negli artt. 29-48 Cost., inquadrano (o meglio definiscono) una società italiana che presenta determinate connotazioni storico-culturali, che un criterio della cittadinanza troppo blando o inadeguato semplicemente altererebbe, scardinando e depotenziando la solidità e la legittimità dell’assetto costituzionale. In questo contesto, il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa o coltivare le proprie usanze etniche (diritto garantito dall’assetto 13-21 Cost.) non sconfessa in alcun modo quanto detto sopra e anzi conferma, nella propria eccezionalità, la regola secondo la quale l’asse portante della nostra nazione si basa su precise connotazioni sociali-culturali ed economiche che solo lo ius sanguinis è in grado di garantire. Il diritto pieno di esercitare la propria fede religiosa e le proprie usanze etniche è garantito sia nel caso in cui esse non siano contrarie al buon costume e sia nel caso in cui non siano tali da alterare l’esercizio dei fondamentali diritti della persona umana o il perseguimento dell’uguaglianza sostanziale, che solo nel diritto al lavoro e nell’equilibrio economico-sociale, connesso alla generale omogeneità politico-culturale della popolazione, può trovare realizzazione.
La previsione di criteri dell’assegnazione della cittadinanza assolutamente blandi o troppo larghi, o comunque capaci, in un contesto storico, sociale ed economico critico come quello attuale, di alterare velocemente e repentinamente l’assetto sociale e culturale del paese, fino al rischio di destabilizzarlo, risulta pertanto decisamente contraria alla Costituzione, proprio nella riaffermazione dei principi ex-art. 1-139 Cost. (v. link sopra). Questo comporta che il legislatore, qualora intenda prevedere nuovi e ulteriori criteri di riconoscimento della stessa, dovrà tenere conto dell’impatto sociale, culturale ed economico che questi nuovi criteri possono avere nell’immediato e nel medio tempore sulla società italiana, in quanto tale impatto potrebbe creare criticità costituzionali ben peggiori rispetto a quelle connesse al mancato riconoscimento di un diritto – quello alla cittadinanza di chi nasce in Italia da genitori stranieri o di chi, straniero, frequenta le scuole italiane – che tale in realtà non è.