La cosmesi sociale e occupazionale nei trattati UE

—   Lettura in 3 min.

Leggevo ieri un ottimo e circostanziato articolo su Orizzonte48 (che trovate qui) sugli obiettivi deflattivi dell’Unione Europea. Un articolo particolarmente denso di cui si consiglia la lettura, con tutti i relativi rimandi inseriti nel testo.

Ciò che mi ha colpito di più – soprattutto in relazione alla funzione e al ruolo del reddito di cittadinanza nel contesto europeista – è la concezione cosmetica del principio della piena occupazione e della presunta attenzione ai temi sociali che pare emergere dai trattati UE (si veda in particolare l’art. 3.3 TUE). Non è un caso che la domanda che mi posi ai tempi del primo approccio alla problematica europeista fu proprio volta a risolvere il conflitto logico e ideologico tra l’obiettivo della stabilità dei prezzi di cui i trattati europeisti trasudano e le enunciazioni con le quali si vuole dare attenzione ai temi sociali, quali la piena occupazione e la solidarietà sociale. Un conflitto che risolsi, a mio modo, ponendo l’obiettivo della stabilità dei prezzi e quello della piena occupazione su piani diversi. Il secondo obiettivo viene escluso solo e se non viene raggiunto il primo; e siccome il primo obiettivo per essere raggiunto richiede che non venga raggiunto il secondo, è chiaro che il secondo obiettivo è più un’enunciazione formale, messa lì come elemento retorico, che sostanziale.

Così poi ho scritto nel volume sul quale sto lavorando da un anno. Ma Orizzonte48 offre una prospettiva migliore e più completa che merita di essere analizzata, almeno per sommi capi. La stabilità dei prezzi richiede la massima flessibilità dei “salari-redditi da lavoro” (il concetto del resto è quello ordoliberista del lavoro-merce), che a sua volta richiede la massima ampliabilità del lavoro a tempo indeterminato, correlato però dall’assenza di qualsiasi elemento sanzionatorio o di scoraggiamento verso forme contrattuali temporanee, e – non meno importante – nella “precarizzazione” del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, attraverso l’«ampliamento della  risolubilità del rapporto di lavoro». Sicché, per farla breve, sì al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma con sostanziale libertà di licenziamento.

Questo permette di coniugare stabilità dei prezzi (e dunque stabilità finanziaria) e occupazione, ma non piena occupazione, poiché come è ben intuibile, la stabilità dei prezzi richiede una disoccupazione strutturale ineliminabile, al di sotto della quale non è possibile scendere senza compromettere l’obiettivo primario. Da qui la compressione della spesa statale, il divieto di intervento pubblico in economia, e l’ampia e caleidoscopica flessibilità lavorativa, correlata con forme di assistenza e riqualificazione post-disoccupazione, che viene riassunta nel neologismo inglese flexicurity, che rappresenta meglio il concetto di lavoro-merce.

Secondo la lunga riflessione in esame, nel contesto del lavoro-merce devono essere inseriti e letti il salario minimo e il reddito di cittadinanza. Se il primo rappresenta il «minimo di paga unico per tutto (o quasi) il mercato del lavoro … stabilito d’autorità, bypassando ogni trattativa sindacale nazionale per comparti», sicché ogni settore professionale, indipendentemente dai contenuti e dai livelli, verrà portato verso il benchmark del salario minimo (effetto deflattivo garantito), il secondo dovrebbe garantire un reddito minimo a chi è disoccupato o inoccupato o comunque non ha un reddito sufficiente per mantenersi. Al di là delle possibili variazioni su come esso verrebbe strutturato e congegnato, la sua limitatezza sta nel fatto che comunque tale reddito è erogato dallo Stato, ma siccome nel mondo neoliberista/europeista, lo Stato è per definizione sprecone, immorale e corrotto (visione rothbardiana), sicché diventa necessario imporgli dei vincoli di bilancio e di spesa (v. Fiscal Compact), inevitabilmente il reddito di cittadinanza diviene «sostitutivo di altre spese dello Stato». O si rinuncia al reddito di cittadinanza ovvero si opta per una limitazione/abrogazione del resto del welfare (effetto deflattivo del reddito di cittadinanza).

Insomma, qualunque sia l’opzione o la scelta, lo scopo primario è sempre lo stesso: la deflazione che rende stabili i prezzi e le rendite finanziarie. Da qui non si scappa, nonostante la retorica nei trattati europei facciano leva sull’altisonanza di obiettivi come la piena occupazione, la dignità della persona umana e la solidarietà sociale. Fumo gettato negli occhi; una cosmesi deflattiva buona per ingannare i polli del sogno neonazionalista tedesco.

Iscriviti sul mio canale Telegram @ilpetulante per rimanere aggiornato sui nuovi articoli