La logica liberista del “voto utile”

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Parecchi, non molto tempo fa, erano propensi a perorare la tesi secondo la quale il voto ai piccoli partiti toglie voto ai grandi che avrebbero maggiori possibilità di “cambiare” le cose. Poi gli eventi politici degli ultimi anni hanno dimostrato inequivocabilmente che il “voto utile” è sì utile, ma non per chi lo ha dato.

Ecco allora che qualcuno ha iniziato a riconsiderare (criticamente) alla teoria del “voto utile”, nei termini che il voto al piccolo non toglie voto al grande, ma semplicemente lo dà al piccolo.

Eppure, per quanto interessante, non è questo il fulcro del mio discorso. Il mantra sul “voto utile” appare ben più inquietante nelle sue implicazioni politiche e democratiche, di quanto si creda. Esso infatti risulta essere un riflesso – nemmeno tanto malcelato – dell’ideologia liberista, che mira semplicemente a imbrigliare l’elettore in un’arena politica costruita essenzialmente sulla logica del tifo. Del resto, il “voto utile” spinge l’elettore non già a votare il meglio, ma a votare contro. In altre parole, riduce la competizione elettorale a ordalia, dove l’elettore decide chi deve sopravvivere e chi non.

Questa logica darwinista è tanto più evidente, tanto è più pressante l’appello al voto utile: non votatemi perché propongo programmi migliori e più convincenti, nell’interesse della nazione, ma votatemi perché altrimenti vince il mio avversario. Una logica nella quale si evidenzia una propaganda politica finalizzata a proporre il meno peggio davanti alla completa assenza di proposte politiche reali. In altre parole, il “voto utile” finisce per essere un processo di convincimento basato sulla paura nei confronti del concorrente politico, ovvero argomentato sulla sua presunta inconsistenza elettorale, che renderebbe il voto “sprecato”.

Dicevo dunque che il “voto utile” è un riflesso dell’ideologia liberista. Perché è attraverso esso che viene sterilizzato il pluralismo democratico; sterilizzazione il cui scopo è sottrarre al confronto elettorale la politica fondamentale e di vero interesse nazionale, magari consegnata – per mezzo del vincolo esterno – a soggetti, entità e istituzioni fuori dal controllo democratico del paese. Il voto utile così va a poggiarsi inevitabilmente sui conflitti sezionali e sui temi marginali, spesso amplificati esageratamente dall’informazione mainstream (fascismo in assenza di fascismo vs. comunismo in assenza di comunismo, scandali, inchieste giudiziarie, allarme razzismo ecc.) con la sola finalità di distrarre dall’annichilamento del pluralismo democratico, che spesso non solo rende inconsistenti le scelte politiche del cittadino (se non è zuppa è pan bagnato), ma ne riduce anche gli ambiti di libertà, poiché i conflitti sezionali, sovente ancorati ai diritti cosmetici (aka diritti civili), mirano ad ampliare i confini di ciò che è eticamente (o addirittura penalmente) vietato.

Nel prisma dell’ideologia liberista, il voto utile è una delle sfaccettature più subdole e deleterie per una democrazia compiuta, perché costringe il cittadino a una scelta limitata, sostanzialmente inutile dal punto di vista degli interessi della collettività, ma assai utile dal punto di vista degli interessi dell’oligarchia. In altre parole, costringe quel cittadino in un percorso del criceto che permette a chi tiene effettivamente le redini del potere, di non preoccuparsi troppo di chi governa, perché la scelta – in nome del voto utile – risulta essere sempre tra la zuppa e il pan bagnato.

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