Le ragioni (inconfessate) del neoliberismo

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Premessa: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro; il lavoro è al centro della programmazione politica della Costituzione. Sicché la Repubblica ha il dovere/obbligo di attuare politiche finalizzate alla piena occupazione. Un governo della Repubblica che abdica a questo ruolo, sta disattendendo il dettato costituzionale nei suoi principi fondamentali (e non ci sono trattati internazionali che tengano davanti a questa violazione).

Ciò premesso, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, quando ancora la coscienza collettiva costituzionale era piena e vigorosa, sicché non si metteva in discussione il paradigma costituzionale della piena occupazione e dell’intervento dello Stato in economia per perseguirla, si affermava una nuova (e perniciosa) linea di pensiero che intendeva invero neutralizzare l’interventismo statale in economia, così come enunciato nella Costituzione del 1948. Luciano Barra Caracciolo ne parla chiaramente nel proprio libro Euro e (o?) democrazia costituzionale (pagg. 27 e ss), nel quale colloca l’inizio di quella che lui definisce «l’era dei tecnici» proprio in quegli anni, quando il modello di società inizia a essere reinterpretato dagli economisti per lo più versati nel settore finanziario, sicché cerca di imporsi un modello sociale parametrato alla volubilità dell’attività creditizia, all’investimento e, perciò, ai mercati finanziari e all’aspetto monetario dell’economia; quella nella quale ancora oggi (e forse oggi più di ieri) viviamo, cercando di stare attento all’equilibrio tra le entrate e le uscite (pareggio di bilancio).

Ebbene, il nuovo paradigma intende superare il concetto di piena occupazione, e dunque il ruolo dello Stato nell’economia come player determinante per l’andamento dell’economia nazionale e l’affermazione del benessere collettivo. Ed è in questo nuovo contesto e con questo nuovo paradigma che vengono reintrodotti nella coscienza collettiva – soggiogandola profondamente – concetti già evidenziati nella critica all’economia ottocentesca, quali “lo Stato è come una famiglia”, oppure “non ce lo possiamo permettere” (v. J. M. Keynes, in L. Barra Caracciolo, op. cit., pag. 38 e ss.); concetti legati all’incubo del contabile e dunque alla trasformazione dello Stato in un privato che per finanziarsi deve chiedere i soldi ai mercati.

La domanda dunque è quella che lo stesso Barra Caracciolo si pone nel suo libro: perché? Perché lo fanno? Cosa ci guadagnano i capitalisti finanziari da una società profondamente diseguale, dove i lavoratori non possono partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (cfr. art. 3.2 Cost.), perché lo Stato rinuncia a perseguire la massima occupazione in quanto non può permettersi (!) le politiche occupazionali keynesiane e in quanto il finanziamento sul mercato costa fior di interessi che gravano sulle nuove generazioni (!)?

Prima di dare una risposta (che non è mia), è utile notare gli slogan evidenziati in corsivo nella domanda retorica precedente. Slogan che spesso si sentono anche oggi dalla bocca di molti politici. Slogan che non sono affatto casuali, e che, proprio perché non hanno alcun fondamento economico reale, in realtà nascondo un’ideologia politica che ben conosciamo: quella neoliberista.

La risposta alla domanda ce la dà Michal Kalecky (biografia). Ve la riassumo, partendo dal brano tradotto nel lavoro di L. Barra Caracciolo (v. op. cit., pag. 29-32).

In primo luogo, l’economista si pone la domanda del perché esiste una così forte opposizione alle politiche di pieno impiego. La sua risposta è chiara: l’opposizione non ha ragioni economiche, e ciò perché il pieno impiego innalzerebbe i livelli di benessere collettivo, aumentando addirittura i profitti delle imprese. Sicché la ragione di questa feroce opposizione è eminentemente politica e si annida:

  1. Nell’avversione dei detentori di capitale contro l’interferenza dello Stato nelle problematiche occupazionali. Se i livelli occupazioni dipendono dalla fiducia (state of confidence) e non dall’azione statale, nel caso di crisi economica (calo investimenti e calo profitti) i capitalisti hanno un potere di controllo sulla politica del governo, tale da indurlo a fare ciò che essi vogliono. Lo Stato in questo caso diventa prigioniero dei mercati, ed è ciò che è oggi il nostro paese.
  2. Nell’avversione contro la destinazione della spesa dello Stato a favore di investimenti e sussidi. Questo perché gli uomini d’affari (i capitalisti finanziari) temono che lo Stato, tramite gli investimenti, possa ampliare il proprio raggio di azione nell’economia (nazionalizzazioni), determinando un crollo degli investimenti privati e dunque della profittabilità degli stessi, e poi perché esiste una ragione morale che si oppone contro i sussidi, quella che oggi è nota come la “durezza del vivere”. I soldi, in altri termini, devono essere guadagnati con il sudore, a meno che tu non sia ricco e non sia un capitalista. E questo implica che chi è disoccupato deve provare – appunto – la durezza del vivere per poter “apprezzare” anche le briciole occupazionali che ti offre l’investimento privato.
  3. Nell’avversione contro i mutamenti sociali e politici determinati dalle politiche di pieno impiego. Il pieno impiego crea una nuova coscienza di classe e indebolisce la posizione sociale del “capo”. In altre parole, la piena occupazione muta il paradigma in favore della classe lavoratrice e medio bassa, indebolendo la disciplina delle fabbriche e la stabilità politica. Sicché, i capitalisti preferiscono il mantenimento di queste ultime ai maggiori profitti determinati dalla piena occupazione.

Questa è una sintesi abbastanza chiara della ragione per la quale oggi le politiche occupazionali sono avversate e considerate “dannose” dalla narrativa neoliberista. I leit motiv ossessivi dello “Stato come una famiglia”, del “debito che grava sulle nuove generazioni”, del “non ce le possiamo permettere”, sono il frutto di una sottile e infida ideologia politica (v. sopra) che mira semplicemente a subordinare lo Stato ai mercati, e ciò affinché i detentori dei capitali possano effettivamente influenzare le scelte politiche di fondo dei governi e la democrazia venga di fatto neutralizzata, seppure formalmente mantenuta. Una riedizione, nemmeno tanto aggiornata, dello Stato liberale ottocentesco.

Non oso andare oltre, e seppure avremo occasioni di parlare ancora di questi argomenti in questo blog, vi suggerisco la lettura del libro di Luciano Barra Caracciolo edito da Dike o il suo blog dove questi argomenti sono stati ampiamente sviscerati (es. qui). Tuttavia, è opportuno fare un’ultima considerazione, citando come premessa un passo di Lelio Basso, tratto dal suo intervento in costituente del 6 marzo 1947:

La democrazia si difende, che la libertà si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando di impedire o di ostacolare l’attività dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato, inserendo tutti i cittadina nella vita dello Stato.

Ecco. Il neoliberismo vuole esattamente il contrario: vuole che i cittadini che possano partecipare alla vita dello Stato e siano inseriti nella vita dello Stato, siano solo quelli che abbiano le capacità economiche per permetterselo, in un contesto nel quale lo Stato non deve agire per elevare economicamente le classi medio basse. In altre parole, solo quelli che per eredità o posizione sociale (le élite), siano i soli in grado di sopportare i costi e godere dei vantaggi dell’essere parte dello Stato. Non una democrazia dunque, ma una plutocrazia, un’epistocrazia e una tecnocrazia che richiede, per autolegittimarsi, masse di poveri e diseredati e uno Stato minimo che non si curi di loro. L’esatta mortificazione della nostra Costituzione e la perfetta apologia dell’europeismo.

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