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Mai, come in queste ultime settimane, esiste e persiste una pressione affinché l’Italia ricorra al MES “pandemico”. I suoi “fan”, ovviamente, ne sottolineano l’utilità, nonché l’assenza di condizionalità e vigilanza rafforzata. Cosa però affatto vera: il MES è sempre quello, con tutti i suoi annessi e connessi, perché nessuna norma del trattato (o dei regolamenti che ne disciplinano il funzionamento) è stata modificata o abrogata. Ricorrere al MES implica dunque un assoggettamento del nostro paese alla cosiddetta troika, cioè alla vigilanza rafforzata sugli aggiustamenti macroeconomici imposti, altrimenti noti come “riforme strutturali”.
Ma cosa sono esattamente queste “riforme strutturali”, di cui tanto si parla da anni?
Nel significato veicolato artatamente dall’informazione mainstream, il termine “riforme” sembra evocare un miglioramento. Sicché “riforme strutturali”, dovrebbero significare un miglioramento dell’architettura politica-economica del paese.
Ma la verità è ben altra. Se partiamo dal presupposto che noi si vive in un regime neoliberista (e l’UEM è sostanzialmente un regime neoliberista hayekiano), il cui scopo è veicolare la ricchezza verso i grandi aggregati transazionali, favorendo così il grande capitale, è chiaro che le riforme strutturali non sono altro che quelle riforme che mirano a sterilizzare del tutto i presidi democratici costituzionali che impegnano lo Stato ad attivarsi per realizzare l’uguaglianza sostanziale, particolarmente avversa ai predetti aggregati capitalistici.
In altre parole, le riforme strutturali servono per consolidare il sistema oligarchico, ancorato al dominio indiscusso dei mercati sulle democrazie. Non è un caso che queste riforme, basandosi sul paradigma della scarsità monetaria, abbiano lo scopo di limitare se non addirittura neutralizzare tutte quelle politiche nazionali che mirano a favorire la piena occupazione e la ricchezza diffusa, il cui perseguimento impedisce la disciplina nelle fabbriche e il controllo salariale, permettendo paritempo l’esercizio pieno della democrazia costituzionale.
Da qui l’insistenza per le riforme strutturali, in un paese – il nostro – dotato di una Costituzione i cui valori portanti sono fortemente antitetici rispetto agli obiettivi neoliberisti propugnati dall’eurolirismo teologico dominante, che – si ricorda – oggi è il più grande propagandatore del MES e di qualsiasi altro vincolo esterno che permetta di aggirare i principi fondamentali costituzionali.
Sicché, a titolo di esempio, non sfugge l’idea che spingere il limite dell’età lavorativa verso i settant’anni, abbia da una parte lo scopo di ridurre la spesa pensionistica (e dunque di riflesso, l’imposizione fiscale in un contesto nel quale si alimenta l’idea che la spesa sia finanziata dalle tasse), e dall’altra favorire un più veloce logoramento fisico della persona, riducendo la sua aspettativa di vita “pensionata”. Così, allo stesso modo, collegare l’erogazione della pensione ai contributi versati (principio contributivo), permette di erogare un trattamento pensionistico che se da una parte non rappresenta l’ultimo salario ricevuto, dall’altra si traduce inevitabilmente in un trattamento inferiore che comporta un deterioramento della qualità della vita del pensionato.
Passando invece alla spesa sanitaria, le riforme strutturali si traducono essenzialmente nei processi di privatizzazione delle prestazioni sanitarie, nella introduzione di forme di assistenza basata sulle assicurazioni private, nella concentrazione e limitazione dei presidi sanitari pubblici, con un accesso basato sul reddito, che per un contesto di spesa ristretto, offrono prestazioni limitate e non sempre all’altezza. Il vantaggio, in questo caso, è solo del grande capitale privato assicurativo e sanitario.
Ma non è tutto. Un altro caposaldo delle riforme strutturali è la privatizzazione di aziende pubbliche, della gestione di porti e aeroporti, di strade e autostrade, di servizi pubblici essenziali, di telecomunicazioni, energia ecc. Questo processo, tanto osannato ed evocato, finisce per permettere al grande capitale transnazionale e alle potenze straniere di entrare in possesso delle infrastrutture strategiche della nazione o dei poli produttivi importanti. Ciò si risolve inevitabilmente in una “colonizzazione” strisciante del paese, che perde di fatto la propria indipendenza economica e politica.
In conclusione, quando si parla di “riforme strutturali”, si parla essenzialmente di tutto questo. Significa, in altre parole, creare una struttura socio-economica che, dipendendo dagli interessi sovranazionali e stranieri, e peggio, dai CDA delle multinazionali, rende del tutto inutile la democrazia costituzionale, e dunque il controllo politico del popolo sul suo destino. In parole povere, tale controllo rimane saldamente in mano a chi muove i grandi capitali transazionali.