L’intangibilità delle pronunce costituzionali e la tutela degli assetti democratici

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I diritti fondamentali sono cristallizzati nella nostra carta e sono inderogabili e non soggetti a condizioni. La carta, poi, stabilisce i casi nei quali possono essere compressi: sempre con legge e sempre che vi sia un provvedimento dell’autorità giudiziaria. E’ pertanto difficile immaginare che possano esistere ipotesi di limitazione della libertà personale generalizzate o libertà di movimento condizionato al possesso di un pass, soprattutto vaccinale. Ed è qui chiaro che quanto è disposto all’art. 16, si riferisce alla possibilità di vietare l’accesso del cittadino a porzioni di territorio, ma non a limitazioni generalizzate di spostamento sul territorio.

Ne consegue che, sul piano teorico, non potrebbero mai esistere sentenze che le riconoscano come legittime. Ma, attenzione: sul piano teorico. In pratica nulla può essere dato per scontato. E non tanto perché potrebbero emergere indiscutibili e insuperabili ragioni giuridiche che lo permettano, quanto perché il diritto è sempre il prodotto di un approccio culturale, di una visione sociale, di un modello economico che domina la società in un determinato momento storico. Sicché, per quanto una Costituzione possa essere rigida e ben definita nei precetti, la sua interpretazione verrà sempre influenzata dal contingente. Se così non fosse, non esisterebbero gli orientamenti giurisprudenziale, che spesso si contraddicono e si sconfessano tra di loro.

Per cui, parlare di intangibilità della giurisprudenza costituzionale è più una questione di legalità che perfetta aderenza dell’interpretazione giurisprudenziale al dato della norma. In altre parole, una sentenza del giudice delle leggi che interpreta la carta in un determinato modo anziché un altro è da rispettare (ed è in questi termini vincolante) perché è il principio di legalità che lo impone, e non già perché effettivamente quell’interpretazione rispecchia fedelmente la volontà del costituente. Anzi, potrebbe persino capitare che questa interpretazione se ne discosti parecchio, infondendo al precetto costituzionale un significato che il costituente invero ha magari voluto escludere (si pensi all’art. 11 e l’equiparazione della limitazione della sovranità alla cessione).

Questa prospettiva ci porta inevitabilmente a considerare la giurisprudenza costituzionale più che altro come un risvolto del principio di legalità. Il vincolo imposto dalle sentenze del giudice costituzionale non può essere superato, tranne che da una legge (salvo il sindacato sulla stessa), ovvero da un’altra sentenza del giudice costituzionale di orientamento diverso (e opposto). Ma mai potrà essere superato o aggirato dal mero fatto che la sentenza disattenda il significato storico e logico della norma costituzionale. Non esiste, quanto meno nel nostro sistema istituzionale, un meccanismo che permetta una siffatta censura.

Il riflesso di questa considerazione è importante per affermare la tangibilità delle pronunce sotto il profilo politico, logico e storico, ma mai sul piano della legalità e del rispetto delle leggi dello Stato, poiché l’interpretazione della norma data dal giudice delle leggi rende vivo il diritto costituzionale. Sicché, fermo restando che l’interpretazione operata dal giudice è un’interpretazione condizionata dai tempi, dagli eventi, dall’approccio culturale ed economico del momento, essa risulta tanto vincolante quanto è vivo il sistema legale in cui opera.

Eppure, nonostante questa evidente verità, emerge sempre più con forza un’altra verità: la tutela degli assetti democratici non può mai essere riposta solamente nell’attività giurisprudenziale del giudice delle leggi, e men che meno nel potere giurisdizionale nel suo complesso. Quella giurisdizionale è certamente un’attività cruciale e centrale, ed è indubbio presidio di legalità, ma non può né deve essere l’unica. L’incombente spetta anche (e forse soprattutto) alla politica, poiché la tutela degli assetti democratici richiede uno sforzo culturale, politico ed economico che opera in primis sul piano pre-giuridico e politico, e dunque in una fase che viene prima dell’attività giurisprudenziale.

Si potrebbero però azzardare di più: la tutela degli assetti democratici – e perciò la tutela della piena vigenza della carta costituzionale – è un’attività in primo luogo politica (del resto, la Costituzione nasce da un atto politico, il processo costituente). Sicché, gli organismi politici, in quanto espressione della volontà popolare così come sancita nell’art. 1 Cost., sono le prime entità socio-politiche chiamate a presidiare i diritti fondamentali costituzionali, e sono dunque i primi che devono attuare la Costituzione e pretendere che venga attuata secondo la volontà costituente. Qualora mancasse questo impegno o si deragliasse da esso, il giudice delle leggi – e dunque il diritto – potrebbe certamente sopperire, ma è chiaro che non potrebbe farlo con la stessa efficacia e la stessa incisività della politica, perché l’attività giuridica è attività derivata dalle istanze politiche che riflettono – almeno in teoria – la volontà popolare. Senza contare che un ricorso sistematico al giudice delle leggi per riaffermare la piena vigenza della carta in suo qualsiasi aspetto è sintomo di un grave malfunzionamento degli organismi politici posti a presidio della democrazia. E questo malfunzionamento, ahinoi!, non è purtroppo curabile a colpi di sentenze.

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