— Lettura in 2 min.
Per rispondere immediatamente alla domanda, è chiaro che il privato non crea il lavoro. Il privato utilizza la forza lavoro per raggiungere uno scopo: la realizzazione dei propri obiettivi imprenditoriali, ovvero per soddisfare un proprio bisogno personale (es. attendere un proprio caro malato, pulire casa). Dunque, l’idea che il privato crei il lavoro è concettualmente errata, perché creare il lavoro significa attribuire al privato una capacità e un obiettivo che non ha: influenzare pesantemente gli eventi macroeconomici e perseguire la massima occupazione.
Però non intendo qui fare un discorso tecnico né filosofeggiare inutilmente. La questione è condensata nel discrimine tra chi utilizza il lavoro e chi lo crea. Creare il lavoro non rientra nelle capacità del privato. Invero è una pianificazione di politica economica che può fare solo il potere pubblico, e precisamente lo Stato. Il privato, al massimo, ricerca e utilizza la forza lavoro che gli serve per conseguire un profitto dalla propria attività, quando questi non è in grado di esercitarla da solo. Ma è proprio per questa ragione che il lavoro diventa inevitabilmente un costo a detrimento del maggior profitto, che spingerà l’imprenditore a utilizzarne il meno possibile onde tenere contenuti i costi e massimizzare i profitti.
Ecco perché in realtà esiste un (insanabile) conflitto tra impresa e lavoro. Un conflitto non solo economico, ma anche etico. L’imprenditore vorrà “sfruttare” il più possibile il lavoratore e pagarlo il meno possibile, e se del caso, licenziarlo quando non è – secondo il proprio punto di vista o le esigenze produttive – più utile. Questo porta a un conflitto che può essere ricomposto solo nella mediazione dello Stato che autoritativamente stabilisce delle garanzie a tutela del lavoratore, il quale – è bene ricordarlo – non è un fattore della produzione come lo è il macchinario assemblatore, ma è un uomo, una persona, un essere umano che ha dei diritti e delle aspettative, e dalla cui remunerazione salariale dipende la vita di altre persone (coniuge e figli).
Pretendere dunque che sia l’imprenditore a creare il lavoro, ovvero pensare che sia l’imprenditore a crearlo, è – ripeto – concettualmente errato. Anche perché, in realtà, l’imprenditore avrà sempre interesse che non venga raggiunta la piena occupazione. Più disoccupati strutturali ci sono, minore è il costo del lavoro e maggiore sarà l’opportunità di assumere lavoratori a un costo più basso. Se poi aggiungiamo che in ragione della disoccupazione, gli imprenditori potrebbero invocare norme lavoristiche più elastiche per assumere e licenziare, voi ben potete capire che l’imprenditore, lungi dal voler creare lavoro, intende solo utilizzare quello disponibile, al minimo costo e con il minimo impegno.
Dunque è lo Stato che può (e costituzionalmente deve) creare il lavoro. Il potere sovrano infatti è l’unico che ha la capacità e la forza di pianificare politiche macroeconomiche finalizzate al raggiungimento e al mantenimento della massima (o piena) occupazione, poiché rientra nell’interesse pubblico che non vi siano disoccupati e che ognuno abbia di che vivere dignitosamente. Le politiche economiche possono, naturalmente, variare, ma è certo che non possono ridursi a una generale defiscalizzazione dell’attività di impresa (idea neoliberista), e certo non possono in alcun modo corrispondere a una diminuzione delle tutele lavoristiche (idea neoliberista ed eurista), la quale invero è idonea a raggiungere un solo obiettivo: la massimizzazione dei profitti di chi utilizza e sfrutta il lavoro sottopagato e precarizzato.