Ecco perché i minibot non sono moneta, e dunque non violano i trattati UE

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Proprio stamane sulla pagina de Il Petulante, un amministratore ha avuto un interessante confronto con un utente sui minibot. Secondo l’obiezione mossa dall’utente in questione – che poi è l’obiezione mossa da alcuni sovranisti – i minibot sono moneta, e dunque violerebbero il trattato UE, e precisamente l’art. 128 Tfue, che asserisce – come è già stato riportato nell’articolo precedente – che gli unici organismi deputati a emettere moneta avente corso legale all’interno dell’Unione Europea, siano la BCE e le banche centrali degli Stati membri; e l’art. 127, che assegna poi al Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC) il monopolio delle politiche monetarie all’interno dell’Unione Europea.

Sulla scorta di queste due norme, i minibot sarebbero illegali, in quanto sostanzialmente monete, nonostante siano formalmente titoli del debito pubblico. A supporto di questa tesi, soccorre il fatto che questi titoli siano privi di interessi e non abbiano scadenza. In questo senso, Marco Mori, uno dei critici dei minibot, sul proprio sito web, afferma che in diritto il «nomen iuris che si attribuisce ad un atto o ad un fatto non rileva, conta ovviamente il contenuto di esso per inquadrare le norme applicabili di volta in volta».

Tesi interessante certamente, ma affatto dirimente per definire esattamente la natura dei minibot alla luce dei titoli del debito pubblico, sui quali peraltro è opportuno fare una premessa. I titoli del debito pubblico sono interamente sottratti alla disciplina civilistica (art. 2001, comma 2, c.c.). Dunque, non si possono in alcun modo applicare a essi le regole proprie del diritto civile (e in particolare la disciplina sull’adempimento del debito e quella sui titoli di credito, ex-art. 1992 e ss.). Già questa prima precisazione è importante per definire la natura dei minibot, come poi si vedrà più avanti.

Fatta questa premessa, è necessario spiegare esattamente che cosa sia il nomen iuris, inteso quale regola di ermenutica generale per indagare sul rapporto negoziale tra le parti. La regola, in questo caso, non stabilisce affatto che sia irrilevante il nome iuris (tutt’altro!), ma prevede solo che il giudice per accertare il rapporto in essere tra le parti (il negozio), non è a esso vincolato, ben potendolo qualificare diversamente, in base ad altri elementi e parametri che emergono dall’esame del rapporto in concreto.

Ora, se è chiaro che il nomen iuris potrebbe anche non essere utile ai fini della definizione di titolo del debito pubblico, è anche vero che negli anni la progressiva diversificazione dei titoli del debito pubblico abbia dato luogo al fenomeno della “detipizzazione” dei titoli di Stato, consistente nel fatto che il termine “titoli del debito pubblico” non identifica più un titolo determinato, ma una categoria variegata di titoli di credito con caratteristiche assai diversificate (BOT, CCT, BTP, CTZ, BTP atipici ecc.). Il che comporta che qualora lo Stato intenderà in un prossimo futuro introdurre nell’ordinamento una nuova categoria di titoli di Stato con caratteristiche peculiari, non necessariamente queste ulteriori e diverse caratteristiche potranno essere utilizzate per sconfessare il nomen iuris degli stessi.

Se questo è vero, bisogna ora intenderci sulla funzione dei titoli del debito pubblico, perché questa è importante ai fini della qualificazione dei minibot. Ebbene, generalmente i titoli del debito pubblico sono titoli emessi dallo Stato (Ministero del Tesoro) e hanno uno scopo preciso: finanziare la spesa dello Stato. Lo Stato prende in prestito dal privato una somma di denaro espressa nella moneta avente corso legale nel territorio (l’euro), e alla scadenza glielo restituisce con (o attraverso) un preciso vantaggio economico, che normalmente è l’interesse sul capitale prestato (non sto qui a distinguere tra titoli redimibili, che garantiscono il rimborso del capitale, premi e interessi, e titoli consolidati che garantiscono invece una rendita senza restituzione del capitale). Ma se questa è la normalità, non è affatto escluso che lo Stato possa emettere titoli del debito pubblico privi di interesse e senza scadenza (v. i CTzero senza interessi, e i bond perpetui senza scadenza), o quelli che vengono definiti i minibot (che, privi di interessi e senza scadenza, prevedono uno sconto fiscale). 

Ed ecco dunque la domanda da 100 milioni di dollari. Ma se lo Stato emettesse i minibot, quale sarebbe il vantaggio dello Stato e quale sarebbe quello del cittadino, visto che non c’è rendita e interesse, né restituzione del capitale? Ebbene, il vantaggio per lo Stato non cambierebbe certo con la mutata caratteristica del titolo: attraverso i minibot esso continuerebbe a finanziarsi, però in questo caso, non attraverso l’acquisizione di ulteriori capitali, bensì attraverso l’adempimento di un debito già contratto. Si avrebbe in altre parole un finanziamento attraverso un risparmio: lo Stato deve 100 al privato; lo Stato paga il privato emettendo un titolo del debito pubblico del valore di 100 e assolve il proprio debito di 100, tenendo 100 in cassa; questo titolo potrà essere utilizzato poi dal privato (ed è qui il suo vantaggio) per acquistare beni e servizi ovvero per pagare le tasse e le imposte.

Qualcuno qui potrebbe a questo punto dire: eh!, ma allora, gira che ti gira, i minibot sono una vera e propria moneta! In realtà no. E questo per le caratteristiche intrinseche dei minibot: non saranno emessi da una banca centrale e non avranno corso legale in Italia, e cioè non sarà obbligatorio accettarli come mezzo di pagamento. I minibot, infatti, si baseranno sulla volontarietà dei consociati a utilizzarli come moneta legale, e cioè come mezzo di pagamento in vece della moneta avente corso legale (ma questa è una caratteristica che ha un qualsiasi titolo di credito, tra cui gli assegni circolari e le cambiali). Sicché il rifiuto di utilizzarli come mezzo di pagamento, non integrerà nemmeno il reato di cui all’art. 693 c.p. Non solo, ai minibot, rispetto a quanto avviene per la moneta avente corso legale nel paese, non si applicherà  – pure in virtù dell’art. 2001 citato (ma questo è solo un rafforzo normativo) – la disciplina codicistica di cui di cui all’art. 1227 c.c., secondo la quale i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale, e di quella di cui all’art. 1278 c.c., secondo la quale è considerato illecito (civile) il rifiuto della valuta ufficiale come mezzo di pagamento (art. 1278 c.c.).

La realtà è che i minibot sono dei veri e propri titoli di Stato sui generis, che al massimo potrebbero rientrare nello schema ex-art. 1285 c.c. (obbligazioni alternative). Il loro utilizzo è lasciato alla volontarietà dei cittadini, che potranno utilizzarli per acquistare beni e servizi (se accettati come moneta legale), ovvero potranno utilizzarli per adempiere i propri oneri fiscali. La loro compatibilità con i vincoli di Maastricht, peraltro è acclarata in ragione del fatto che non incrementano affatto il Maastricht Debt, cioè non incidono negativamente sui vincoli di bilancio ivi previsti, poiché i minibot rappresentato un debito già contratto, e non creano nuovo debito. Soprattutto però – e qui vorrei rimarcarlo ancora una volta! – non comportano la violazione degli artt. 127 e 128 del Tfue, poiché i minibot non hanno corso legale nel territorio italiano, la cui circolazione e accettazione come mezzo di pagamento è basata sulla volontarietà.

In foto, Claudio Borghi Aquilini (Lega), ideatore dei minibot.

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