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In questi giorni, sul caso “Sea Watch”, se nel leggono davvero molte. C’è chi ritiene sia applicabile l’art. 54 c.p. e sia chi ritiene applicabile l’art. 51 c.p. Sicché la nave avrebbe legittimamente varcato le frontiere italiane – peraltro non fermandosi all’alt – per ragioni di necessità, ovvero abbia tenuto entrambe le condotte nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica.
Resistenza a nave da guerra
Vero è, che nel caso “Sea Watch” viene contestata la violazione dell’art. 1100 CdN, che punisce chi «commette atti di resistenza o di violenza contro una nave da guerra nazionale». Una norma abbastanza chiara, che certo si estende a qualunque natante, nazionale o straniero, che non rispetti l’alt di una nave da guerra in acque non territoriali. Non è un caso che la previsione penale, da un punto di vista sistematico, sia distinta dal “rifiuto di obbedienza a navi da guerra” ex-art. 1099 CdN, che rinvia ai casi previsti dall’art. 200 CdN (polizia marittima), il quale, a sua volta, fa riferimento alle navi mercantili nazionali, ai quali però potrebbero essere equiparati i mercantili di un paese dell’Unione europea. Certo è che, l’art. 1100 CdN, a differenza del 1099 CdN (pure contestato), non fa alcuna distinzione tra navi nazionali o straniere. Diversamente, si dovrebbe ipotizzare che, nel caso di resistenza o violenza contro una nave da guerra, esisterebbe invero un’ipotesi di non punibilità per le navi straniere e non anche per quelle italiane.
Lo stato di necessità
Quanto all’ipotesi di applicazione dello stato di necessità ex-art. 54 c.p., la norma in esame prevede un’esimente, che però – a sua volta – richiede che si verifichino particolari condizioni: a) il pericolo attuale; b) il danno grave e inevitabile; c) la non volontarietà; d) la proporzionalità.
Ebbene, lungi dal voler fare una disamina approfondita sulla norma, quello che qui si vuole sottolineare è che il “pericolo attuale”, per quanto non debba essere imminente, deve comunque essere un pericolo probabile, ma la probabilità non deve desumersi da una valutazione meramente soggettiva dell’agente, ma da una serie di considerazioni di carattere oggettivo. Il “danno grave e irreparabile” si riferisce, invece, a un caleidoscopio di diritti (vita, salute ecc.) che verrebbero irreparabilmente compromessi qualora non si violasse la norma penale, di guisa che o si tutelano questi beni giuridici ovvero si commette reato. Quanto invece alla “non volontarietà”, è chiaro che il pericolo per il quale si opera in modalità necessitata deve essere non voluto dall’agente. Dunque, lo stato di pericolo deve essere fortuito o casuale, ovvero dettato da forza maggiore, cioè non dipendente dalla mera volontà dell’agente. Sicché, l’agente che mette volontariamente in pericolo i beni della vita di un terzo, non può invocare l’esimente, perché avrebbe potuto ovviare all’evento pericoloso semplicemente evitando di esporre quei beni al predetto evento. Infine, la “proporzionalità”. Qui la questione è più complessa, e attiene alla valutazione delle condizioni precedenti, all’interno di un giudizio complessivo, attraverso il quale poi si valuta se l’azione necessitata sia proporzionale alla tutela dei beni che si è inteso proteggere.
L’adempimento di un dovere
Infine, l’ipotesi di cui all’art. 51 c.p., e segnatamente quello concretizzantesi nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica. L’ipotesi, fondata sul principio di non contraddizione tra le norme dell’ordinamento, è riferita ai rapporti di diritto pubblico, escludendosi quelli di diritto privato. Qui, la questione attiene al fatto se sia possibile sottrarsi a un ordine dell’autorità per adempiere a un dovere imposto da una norma giuridica (internazionale e vincolante). La valutazione implica l’accertamento sulla natura del dovere imposto dalla norma e se esista effettivamente questa contraddizione, tal che o si tutela il benegiuridico ovvero si commette il reato. Chiaramente, venendo meno la contraddizione, viene meno anche l’esimente.
Ognuno, in base a queste informazioni o ad altre più dettagliate, può trarre le proprie conclusioni sul caso concreto. Vero è che sarà il magistrato, comunque, a dire l’ultima parola.
Il salvataggio in mare
Piuttosto, ci si sofferma sulla questione “obbligo di salvataggio in mare”. Se è pur vero che le varie convenzioni e i vari trattati (anche sottoscritti dall’Italia) prevedano un obbligo di assistenza e salvataggio per i “naufraghi” (pacta sunt servanda), e prevedono altresì – almeno sul lato UE – il divieto dei respingimenti collettivi, è però vero che molte di queste norme internazionali sono state elaborate in un contesto storico e in un quadro globale differente rispetto a quello attuale, che invece vede forti spinte migratorie “economiche” dall’Africa verso l’Europa, le quali determinano una formidabile pressione soprattutto sull’Italia, anche a fronte di una sostanziale assenza dell’Unione Europea e dei partner europei nel fronteggiare il fenomeno migratorio di massa.
Se questo è incontestato, è altresì incontestato che la forte pressione sul nostro paese e il fatto stesso che la sequenza “naufragio-soccorso” non sia episodica, determinano che il fenomeno migratorio di massa stia incidendo gravosamente e pericolosamente sulla integrità territoriale e sulla sovranità del nostro paese, elementi questi che si assumono come facenti parte dei principi fondamentali inderogabili e intangibili cristallizzati nella nostra carta costituzionale e nell’essenza stessa dell’essere, il nostro, uno Stato indipendente e sovrano. Sicché, per quanto sia “vincolante” la normativa internazionale, è legittimo chiedersi se le autorità politiche del nostro paese non debbano denunciare le convenzioni e i trattati suddetti, sul duplice presupposto che il fenomeno migratorio di massa determina una costante e reiterata violazione dei principi fondamentali inderogabili costituzionali connessi all’integrità territoriale e alla sovranità del nostro paese e che le norme internazionali che impongono determinati obblighi di assistenza e salvataggio, per il contesto in cui furono formulate, non sono idonee a disciplinare il fenomeno migratorio attuale (e ciò in ossequio al principio del rebus sic stantibus). E non in ultimo, perché il fenomeno stesso mette a rischio gli equilibri sociali ed economici del paese, gravandolo di un onere che invero dovrebbe essere condiviso con gli altri paesi europei, i quali, invece, con varie argomentazioni e scuse se ne sottraggono.
Vero è che proprio alla luce di queste ultime considerazioni, e ribadendo la necessaria sussistenza della condizione di reciprocità ex-art. 11 Cost., il nostro paese ben potrebbe, cautelativamente, sottrarsi agli obblighi internazionali, poiché, richiamando (paradossalmente) la ratio della scriminante di cui all’art. 54 c.p., il paese si trova oggi costretto a scegliere se tutelare la propria sovranità e la propria integrità territoriale, ovvero rispettare i predetti vincoli. E va da sé che a nessuno Stato può essere richiesto di rispettare quelle norme internazionali che, per gli incontestati mutamenti storici, economici e politici, siano diventate – rebus sic stantibus – eccessivamente onerose, soprattutto quando tale onerosità si tramuti in una pressione internazionale che potrebbe pregiudicare fatalmente la propria integrità territoriale, il proprio equilibrio sociale ed economico e il proprio essere Stato sovrano.