Perché i trattati UE violano la Costituzione

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Esistono diversi libri e articoli che lo spiegano, e persino in questo blog ne ho già parlato. Ma qui è utile fare un breve ripasso, almeno per chi ancora non ha ben capito come sia possibile che i trattati violino la nostra Costituzione.

Premessa. Il neoliberismo

Per capire esattamente in che termini i trattati dell’Unione Europea violano la nostra Costituzione, è necessario ribadire l’ovvio: l’Unione Europea è un sistema neoliberista (o ordoliberista), e cioè un sistema nel quale il mercato viene prima di tutto. In questi termini, il neoliberismo è un’ideologia, né più né meno del comunismo. L’aspirazione finale di questa ideologia è il dominio delle élite sulle masse attraverso l’unico diritto che conta veramente: la forza. Nel sistema neoliberista ogni questione deve risolversi attraverso i rapporti di forza. Tra le élite e tra le élite e le masse. Non vincono la democrazia e le scelta dal basso, ma vince chi è più forte e ha migliori capacità di imporsi sugli altri; forza e capacità che sono date dal controllo delle risorse e dei capitali.

La Costituzione italiana

Nel 1947 l’Italia si è data una Costituzione che ha precisi connotati. In particolare, dopo aver affermato che la sovranità appartiene al popolo e che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro (art. 1), prevede una piattaforma programmatica che metta al centro dell’azione positiva statale il lavoratore, stabilendo altresì il principio di uguaglianza sostanziale: non basta essere formalmente uguali, ma è necessario che chi parte svantaggiato abbia le stesse possibilità di chi parte avvantaggiato. E questo obiettivo impegna sostanzialmente lo Stato ad agire affinché il principio venga soddisfatto. E questo agire deve esplicarsi in tutti gli aspetti della vita sociale, tra i quali il più rilevante è sicuramente l’economia.

Dunque, in base alla nostra Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, l’Italia è una Repubblica sovrana e indipendente che ha lo scopo di perseguire il benessere collettivo attraverso tutti gli strumenti che si reputino opportuni. Tra i quali abbiamo il diritto-dovere della Repubblica di intromettersi nelle dinamiche economiche per correggere le storture del libero mercato quando questo impedisce al lavoratore di partecipare attivamente alla vita sociale, politica ed economica del paese. E questo impedimento – giocoforza – si concretizza ogni qual volta il cittadino-lavoratore sia disoccupato, non abbia di che vivere, il suo salario sia inadeguato per sostenere se stesso e la propria famiglia, e quando, dunque, si metta al primo posto non l’occupazione, bensì la rendita finanziaria (profitti e interessi da capitale).

Gli strumenti utilizzabili dalla Repubblica sono diversi. In particolare la Repubblica può costituire aziende di Stato, può calmierare i prezzi al consumo, può esercitare il controllo sulle attività creditizie, può espropriare imprese e molto altro.

Quel che è certo è che tutte queste attività sono preordinate per realizzare il principio di uguaglianza sostanziale e il diritto al lavoro, che poi si traducono nel benessere collettivo e dunque nello sviluppo economico e sociale della nazione.

I Trattati Europei

L’Unione Europea è nata originariamente per instaurare un mercato comune fra gli Stati del blocco occidentale (si sospetta che, a tal proposito, l’unione sia stata sponsorizzata dagli USA); un mercato che per le sue caratteristiche avrebbe dovuto prevalere sugli ordinamenti degli Stati nazionali. Ma se questa caratteristica emergerà lenta nel tempo, i presupposti normativi furono coltivati fin da subito, attraverso la prevalenza della legislazione comunitaria su quella interna. Una struttura di tal fatta non poteva che essere liberista, e infatti la filosofia e l’ideologia economica di fondo che l’ha connotata e tuttora la connota è l’ordoliberismo (v. anche qui), le cui premesse teoriche furono definite fin dagli anni ’30 del secolo scorso (nel cd. colloquio Lippmann, a cui partecipò tra gli altri Von Hayek).

L’ordoliberismo non è nient’altro che il neoliberismo (v. più su): intende superare il laissez faire nell’accesso al mercato, lasciandolo agire dentro il mercato. E infatti i trattati europei sono improntati proprio a garantire la concorrenza nel mercato, vietando agli Stati di intromettersi nelle dinamiche economiche e ponendo loro una serie di limiti e di vincoli di bilancio affinché non influenzino il mercato, soprattutto quello finanziario.

E non è un caso che l’art. 3 par. 3 del Trattato di Lisbona affermi che «l’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico»

A prima vista sembrerebbero tutte cose belle e condivisibili, ma è proprio nell’altisonanza retorica che si nasconde il veleno neoliberista. E il veleno è racchiuso in due locuzioni: “stabilità dei prezzi” ed “economia sociale di mercato fortemente competitiva”.

Stabilità dei prezzi significa deflazione. Deflazione significa disoccupazione strutturale. Disoccupazione strutturale significa crollo della domanda interna. Il tutto in un circolo vizioso che alimenta la disoccupazione, la deflazione salariale, la deindustrializzazione e la restrizione fiscale. Lo scopo finale è creare le condizioni socio-economiche che giustifichino l’abbattimento della spesa pubblica, e dunque la neutralizzazione delle tutele sociali, onde instaurare un regime liberista di stampo darwiano.

Sull’altro lato, la stabilità dei prezzi (con tutto ciò che è connesso) garantisce la stabilità della rendita finanziaria per chi investe i propri capitali in aziende private o in titoli pubblici.

Infine, tutto questo permette di creare un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, e cioè un’economia mercantilista orientata al mercato globale. Abbattuta la spesa pubblica e raggiunto il pareggio di bilancio strutturale, l’economia diventa giocoforza competitiva: se paghi poche tasse e hai un esercito di disoccupati disposti a lavorare per un tozzo di pane, senza tutele e in un contesto darwiano, i tuoi prodotti diventano concorrenziali sul mercato globale.

Tradotto: se sei disoccupato, lo sei perché dall’altra parte del globo un riccone possa comprare il prodotto italiano a un prezzo conveniente.

Un contrasto insanabile

La Costituzione italiana, in ossequio alla realizzazione degli obiettivi di cui agli artt. 2, 3 e 4 Cost., impegna la Repubblica al perseguimento della massima occupazione e alla tutela del risparmio. Questi obiettivi possono essere raggiunti solo e se lo Stato possa intromettersi nelle dinamiche economiche, abbia il pieno controllo la propria moneta e possa vigilare efficacemente sul sistema creditizio e bancario. Capacità queste che discendono direttamente dalla sovranità popolare ex-art. 1 Cost.

Non può farlo se invece gli venisse fatto divieto di intervenire nelle dinamiche economiche, non avesse una moneta sovrana e la vigilanza sul sistema creditizio venisse affidata a una banca centrale indipendente dallo Stato e nemmeno soggetto alle sue leggi. Ed è ciò che infatti prevedono i trattati.

Da qui l’incompatibilità. Un’incompatibilità insanabile, poiché si propone su due livelli: la violazione della sovranità nazionale; l’affermazione in Italia di un modello economico completamente differente rispetto a quello disegnato nella carta costituzionale, e cioè il modello ordoliberista visto più su.

Come ci siamo arrivati?

Non intendo qui ripercorrere le varie fasi. In sintesi si può dire che si è arrivati a smontare la Costituzione economica nel tempo, attraverso interventi giurisprudenziali carsici che hanno decretato la supremazia del diritto comunitario su quello italiano, fino a ricomprendervi anche le norme della Costituzione che non agissero da controlimite. E fra queste non sono state artificiosamente ricomprese quelle “economiche”, sicché gli artt. 2, 3 e 4 Cost. sono stati depotenziati sul lato economico.

Il colpo di grazia alla Costituzione economica è arrivato però con due distinte riforme costituzionali. La prima fu la riforma costituzionale del 2001, la quale, approvata in completa assenza di dibattito, ha costituzionalizzato il vincolo esterno comunitario. La seconda intervenne nel 2012, che – sempre in assenza di dibattito – ha introdotto il pareggio di bilancio.

Nel contesto però dobbiamo rammentare altri passaggi cruciali e determinanti. Il primo si è verificato nel 1981 con il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Il secondo invece con l’abbandono della lira e la devoluzione della sovranità monetaria all’Unione Europea. Ciò è accaduto in più fasi, durante gli anni ’90, a partire dalla sottoscrizione del Trattato di Maastricht. L’Italia è entrata nell’euro nel 1999.

Viviamo nell’illegalità costituzionale?

Direi proprio di sì. La supremazia dei trattati europei sulla Costituzione è illegale. Nessuna norma internazionale può prevalere su ogni singola norma costituzionale e, in modo automatico, sulle leggi nazionali. Non esistono giustificazioni giuridiche sufficientemente razionali per affermare il contrario. Pertanto la cessione di sovranità nazionale in qualsiasi materia è illegale, e non basta l’invocazione dell’art. 11 per asserire che non sia così: in parte perché questa norma venne prevista per un singolo caso (l’ingresso dell’Italia nell’ONU) e in parte perché la sua valenza è per lo più retorica e non giuridica, e se anche fosse giuridica, limitazione non è cessione. La sovranità nazionale non può in alcun modo essere ceduta. E qualsiasi atto di cessione, seppure suggellato in un trattato internazionale, è illegale.

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