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A prima vista, e qualora si sia completamente privi di nozioni di base di economia e politica, il reddito di cittadinanza e quello cosiddetto “universale” potrebbero sembrare misure “socialiste” o comunque improntate a perseguire l’eguaglianza sostanziale ex-art. 3 Cost. Ma non è proprio così. Come è già stato spiegato altrove, le politiche stataliste sono uno strumento e il problema è chi le attua e con quali finalità.
Orbene, i redditi assistenziali (di cittadinanza e universale), di primo acchito, potrebbero effettivamente dare l’idea che l’obiettivo sia fornire un reddito di sostentamento in condizioni avverse, ma la verità è che l’obiettivo è ben altro e coinvolge le dinamiche macro-economiche su rendita, occupazione e produzione. Infatti, se lo scopo annunciato è proprio quello di “sostenere” i cittadini disoccupati in contesti economicamente depressi, la verità è che i redditi di sostentamento sono essi stessi strumenti per alimentare la disoccupazione ed eventualmente tenerla stabile sopra un certo tasso (normalmente a due cifre). La disoccupazione strutturata protegge gli investimenti speculativi dall’inflazione e garantisce per il capitalista maggiore remunerazione del capitale, con costi produttivi decisamente più bassi e concorrenziali.
Ma come funzione tutto ciò esattamente? Per semplificare al massimo, è necessario prima di tutto avere una cornice normativa improntata all’austerità e alla stabilità monetaria (la UE è il contesto socio-economico ideale, visto che è nata per questo). La stabilità monetaria – che viene attuata attraverso una serie di vincoli contabili e normativi, tra i quali spiccano le forti limitazioni alla spesa pubblica (austerità) – scarica sul lavoro (e dunque sui livelli occupazionali) le oscillazioni del valore della moneta, creando disoccupazione, precarizzazione e deflazione salariale. La moneta rimane stabile, sicché instabili diventano i salari e le opportunità di lavoro.
E’ chiaro però che la disoccupazione e l’indebolimento delle tutele sociali-lavoristiche conseguenti alle politiche anti-lavoristiche, nel tempo saranno destinate ad alimentare il malcontento sociale, il quale però in parte verrà canalizzato su questioni irrilevanti se non strumentali (i diritti cosmetici) e in parte sedato attraverso le note politiche assistenzialistiche, tra le quali – appunto – si evidenzia il reddito di cittadinanza/universale. Non potendosi (o meglio: non volendosi) fare politiche occupazionali che richiedono importanti investimenti pubblici (e dunque l’utilizzo di un modello economico opposto a quello deflattivo), si opterà per una rete assistenziale che se anche potrà avere un significativo impatto sulla spesa pubblica, questo impatto verrà compensato attraverso opportuni tagli agli altri capitoli di spesa sociale: la spesa sanitaria (tagli dei presidi sanitari, privatizzazione e/o ticketizzazione delle prestazioni sanitarie) e quella previdenziale (potenziamento della previdenza privata, soglie di pensionamento più alte per età e tempo lavorativo, utilizzo del sistema contributivo). Il tutto in nome del conflitto generazionale, altro chiaro marker che tradisce l’ideologia liberista di questo genere di politiche.
Il quadro ora sembra più chiaro: un sistema di sostentamento minimo, supportato da una rete socio-assistenziale-previdenziale pubblica dalle maglie strettissime (sicché pochi ne possono effettivamente godere), in un contesto economico dove le prospettive occupazionali sono praticamente azzerate dall’assenza di politiche occupazionali. Un quadro desolante, dove il lavoro diventa una “opportunità” scarsa e precarizzata, che per contrasto rischia di rendere persino più appetibile il reddito minimo di sostentamento. Ma anche questo, in un certo senso, è voluto (anche per ragioni palesemente demagogiche).
Il quadro disadattato anzidetto, ovviamente, non può essere né un quadro socialista e nemmeno keynesiano (modelli questi sposati dalla nostra Costituzione, comunque disattesa dall’adesione del nostro paese alla UE). E’ semmai il tipico quadro socio-economico liberista. Tanta disoccupazione per abbassare il costo del lavoro (liberalizzato) che garantisce la stabilità monetaria, la stabilità delle rendite speculative, la disciplina nelle fabbriche (chi riesce a trovare un’occupazione più o meno stabile, pur di tenersela, sarà disposto a rinunciare ai propri diritti economico-sindacali) e una capacità produttiva concorrenziale prevalentemente export led (mercantilismo).
Ora, però, secondo alcuni, il reddito di sostentamento, variamente denominato, incentiverebbe comunque i consumi, e dunque permetterebbe che circolino moneta e reddito (del resto, un disoccupato senza un soldo in tasca non incentiva un bel niente). Ma questo è vero fino a un certo punto, perché un conto è agire in un contesto normativo (anche solo tendenzialmente) autarchico, dove la legislazione privilegia la produzione interna, un altro è agire (come in realtà si agisce) in un contesto fortemente liberalizzato, dove esiste libertà di circolazione di merci, persone e capitali. In quest’ultimo contesto, il reddito di cittadinanza/universale, essendo un reddito di sostentamento minimo (un po’ come le pensioni sociali), verrà speso soprattutto in beni di scarsa qualità, prevalentemente importati e a basso costo, magari prodotti sempre da aziende nazionali, ma in realtà produttive delocalizzate sia produttivamente e sia anche fiscalmente. Perciò, l’impatto sulla domanda interna (e dunque sulla produzione nazionale) è comunque minimo, e lo è per due ragioni: a) come si è detto, chi lo percepisce orienta le sue scelte su beni esteri (più concorrenziali); b) e poi perché, questo tipologia di reddito non è studiata per creare benessere diffuso (come le politiche occupazionali), bensì è studiata per rendere endemico il malessere, e cioè per far accettare come socialmente inevitabile (e per certi versi accettabile) la precarizzazione lavorativa e la forte limitazione delle tutele socio-sanitarie e previdenziali. Gli scopi sono quelli illustrati nei paragrafi precedenti.