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Incidentalmente, un piccolo discorsetto sulla prescrizione, di cui ho fatto una sommaria ricognizione politica su Qelsi, mostrando il mio pieno disappunto sulla possibilità che l’istituto possa essere alterato nel modo voluto da una parte della maggioranza di governo, nei termini di una sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Le implicazioni costituzionali di una siffatta modifica al codice penale, e segnatamente agli artt. 158, 159 e 160 c.p., sono talmente gravi, che in realtà servirebbe non un post, quanto un tomo piuttosto sostanzioso per spiegarlo. L’idea, comunque – come ho detto – sarebbe quella di sospendere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio; ciò per perseguire un non meglio ideale di giustizia, connesso alla certa punizione del colpevole (anche a distanza di decenni), che diventerebbe però aberrazione costituzionale, poiché il raggiungimento dell’obiettivo anzidetto implicherebbe la violazione di una serie di norme e principi costituzionali posti a presidio del buon andamento della giustizia, del diritto di difesa del cittadino, del principio di innocenza fino a sentenza definitiva e della ragionevole durata dei processi. Un’involuzione della civiltà giuridica verso una forma inquisitoria del processo penale, che se da una parte non terrebbe conto dell’operatività di questi principi, dall’altra vedrebbe un intollerabile arretramento del processo verso una riqualificazione punitiva in attesa della pena comminata nella sentenza.
La realtà, dunque, è che la sospensione sine die della prescrizione è contraria non solo alla ragionevolezza umana, ma anche a quella giuridica condensata nella carta fondamentale. Il diritto di difesa ex-art. 24 Cost. verrebbe avvilito dagli enormi costi economici, psicologici ed esistenziali che il cittadino (presunto innocente ex-art. 27 Cost.) dovrebbe sostenere per reggere un processo che potrebbe dilungarsi anni, anche solo nei termini di costanti e lunghi rinvii delle udienze. Si avrebbe una vera e propria “tortura psicologica ed esistenziale”, che renderebbe il nostro processo penale una forma di pena a sé. Un patimento d’animo legato all’inutile trascorrere del tempo, in attesa di un giudizio definitivo, il cui giorno finale è fissato discrezionalmente dal magistrato. Peggio pure se al presunto innocente venisse applicata una misura cautelare restrittiva della libertà personale o una misura cautelare patrimoniale (un sequestro dei beni). In tal caso, l’art. 27 Cost. verrebbe di fatto vuotato della propria sostanzialità e verrebbe introdotto il principio opposto, e cioè quello della presunzione di colpevolezza fino a sentenza definitiva.
Aberrazioni che, invero, giustificano l’esistenza stessa dell’art. 111 Cost. il quale, riformato alla fine degli anni ’90, ha stabilito a proposito del processo che «La legge ne assicura la ragionevole durata». E’ evidente, dunque, che qualora venisse cancellata (di fatto) la prescrizione, questo principio dispositivo verrebbe completamente anestetizzato: il limite oggettivo all’irragionevole durata dei processi si dissolverebbe come neve al sole. Senza la prescrizione, in altri termini, un processo potrebbe virtualmente durare anche secoli e millenni, o più umanamente decenni. E la sua durata – ripeto – sarebbe rimessa alla piena discrezionalità del giudice che potrebbe rinviare l’udienza di anni senza che nessuno possa farci nulla.
La domanda, a questo punto, è perché questo errore giuridico così grossolano? Il fatto è che con l’abrogazione sostanziale della prescrizione (altro non è la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado), si vorrebbe risolvere il problema della denegata giustizia, agendo sul sintomo e non sulla causa. La prescrizione di un reato non è la causa della denegata giustizia: è il sintomo di essa. Significa che la giustizia non è in grado, in tempi ragionevoli (che poi sono anni), di garantire processi equi e capaci di realizzare appieno le aspettative di giustizia. Dunque, la riforma vorrebbe eliminare non già il problema, ma il suo sintomo. In tal caso, però, il problema (la cosiddetta lungaggine processuale) rimarrebbe, dando occasione alla malattia (la denegata giustizia) di aggravarsi ulteriormente.
La soluzione dunque non è aggirare o violare quelle norme costituzionali che sono poste a presidio della tutela del cittadino davanti al potere giudiziario. La soluzione è trovare i giusti meccanismi che possano garantire esiti certi, in tempi ragionevolemente contenuti, dei procedimenti penali, senza che questi finiscano per infrangersi nel muro della prescrizione che è essa stessa presidio alla irragionevole durata dei processi e all’arbitrio giudiziario.