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In questo preciso momento storico se cercate una differenza tra destra e sinistra non lo troverete, perché non c’è. E non c’è perché se retoricamente questa differenza sembra esistere (alimentata dai media), la verità è ben diversa. Infatti, se l’economia permea e plasma le dinamiche sociali, fino a dar loro una connotazione ben definita, inevitabilmente è nell’ambito economico che si deve cercare questa differenza. E qui purtroppo troverete amare sorprese: tra destra e sinistra non c’è praticamente alcuna differenza.
Faccio una premessa. Comprendo che il discorso potrebbe risultare “semplicistico”. Ma come si vedrà, lo è fino a un certo punto.
Sintetizzando, dobbiamo tenere presente che la dialettica “destra/sinistra” degli ultimi trent’anni, almeno in Italia, poggia su una piattaforma ideologica che le accomuna incontestabilmente: il (neo)liberismo. In qualsiasi modo la si metta, questa dialettica tiene infatti fermi alcuni pilastri essenziali che regolano la vita socio-economica di questo paese; pilastri codificati chiaramente e inequivocabilmente nel cosiddetto diritto dei trattati europei: il mercato sovraordinato alla politica, la banca centrale indipendente, la scarsità monetaria, la libera circolazione di merci persone e capitali, il debito pubblico brutto che grava sulle nuove generazioni, il taglio delle tasse come unica politica di espansione fiscale ammissibile, il taglio della burocrazia (e dello Stato sociale) come viatico della precedente, la meritocrazia come elemento darvinista per elevarsi socialmente ed economicamente. Il tutto garantito e cementato dal vincolo esterno, e cioè da un sistema di regole e meccanismi sovranazionali il cui scopo è neutralizzare la democrazia e la sovranità popolare, onde evitare un deragliamento che possa rimettere in discussione lo status quo neoliberista per via democratica.
Sicché, basta davvero poco per svelare il teatrino della contrapposizione “destra/sinistra”. Che si concentra oggi essenzialmente e duramente su temi secondari, su problemi marginali (se non addirittura inesistenti), su conflitti ideologici e retorici anacronistici o esagerati, i quali spesso sono preordinati a distrarre la popolazione dai punti focali, dalle questioni fondamentali e dirimenti per il benessere della collettività. E del resto, come prova a carico si porti questa constatazione: ogni qualvolta emerge nel dibattito politico un tema cruciale, cioè un tema che mette in discussione lo status quo e fa tremare i pilastri fondamentali dell’architettura socio-economica “liberista” ed eurista (es. MES), magicamente le contrapposizioni si fanno più sfumate e ambigue. Pur con toni e approcci differenti (e con qualche raro distinguo), tra la cosiddetta destra e la cosiddetta sinistra si forma una tendenza alla convergenza, quasi che il copione imponga loro di operare in tal senso, non ammettendosi eccezioni.
Lo vediamo tutti i giorni. Di qualsiasi cosa si parli, di qualunque natura sia lo scontro, nessuna forza politica che si dica di destra o di sinistra (lasciamo perdere il prefisso “centro” perché inutile) mette in seria discussione lo status quo neoliberista ed eurista. E seppure sia vero che vi sono stati “timidi” tentativi di invocare l’uscita dell’Italia dall’unione monetaria europea, oggi tutti questi tentativi sono rientrati in un più rassicurante (per le élite) proposito di cambiare l’Europa da dentro, che significa sostanzialmente un rinvio della questione alle calende greche.
Per cui, dirsi di destra o di sinistra oggi non ha grande senso né pratico né ideale né tantomeno ideologico. Entrambe (destra e sinistra) propongono e sponsorizzano – peraltro convintamente! – lo stesso modello socio-economico “neoliberista”, pur con qualche differenza di dettaglio e di forma, che non solo non mette in discussione i suoi fondamentali, ma non è in grado, per sua natura, di invertire la corsa verso il degrado post-democratico del paese. Sicché, oggi, ci si potrà pure scannare sul reato di omofobia, su come gestire l’immigrazione irregolare o sulla pillola abortiva, ma finché il neoliberismo dominerà la cultura economica di entrambi gli schieramenti, i partiti e i movimenti a cui si riferiscono finiranno per rispettare l’agenda imposta dall’esterno, che vuole un processo storico-politico nel quale gli Stati nazionali e le loro costituzioni democratiche siano messi fuori gioco definitivamente, onde far spazio a un sistema globale interamente dominato dal capitalismo transnazionale; un sistema nel quale le istituzioni di governo non siano più reale espressione di scelte democratiche bensì di scelte elitarie, alimentate da interessi elitari.
ADDENDUM: in questo contesto ha un ruolo fondamentale lo “stato di eccezione permanente“. Le élite ultracapitalistiche per poter governare devono legare i partiti politici a un’agenda che possa essere considerata inderogabile e attuabile a tappe forzate, saltando cioè a piè pari i principi costituzionali contrastanti. Questo può essere fatto – si è detto – tramite il vincolo esterno, il quale però alimenta la sua forza non solo tramite i vincoli del diritto internazionale, ma anche (e soprattutto) per mezzo dello stato di eccezione permanente. Cioè uno stato nel quale le regole democratiche vengono affievolite, sospese o rinviate, in nome di una sequela di eccezioni contingenti, sovente di natura emergenziale (es. una crisi finanziaria o una crisi sanitaria). Questi stati favoriscono il progredire dell’agenda neoliberista senza che la popolazione possa opporvisi, determinando infine una mutazione a proprio favore dell’architettura ordinamentale. Ciò fino al punto di non ritorno.