Quando l’euro viene da lontano. Il rapporto Werner del 1970

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Voi pensavate che l’euro fosse una decisione presa all’ultimo minuto, dopo o contestualmente alla riunificazione tedesca, e di seguito alla caduta del muro di Berlino e al crollo dell’URSS? Ebbene, avete fatto male i conti. L’euro non è un progetto che nasce alla fine degli anni ’80. E’ qualcosa che è stato pensato molto prima. Essendo uno strumento deflattivo neoliberista – il cui scopo era ed è ripristinare la disciplina nelle fabbriche, la durezza del vivere e dunque il concetto di lavoro-merce, dove le protezioni sociali sono del tutto inesistenti e il profitto è l’unico dio che deve informare le relazioni economico-sociali – l’euro non è nato per caso durante una chiacchierata fra banchieri (i suoi primi e più entusiasti sostenitori), ma è il frutto di un lucido progetto che aveva iniziato a prendere forma nella mente della finanza euro-americana fin dagli anni ’60, quando ancora l’Unione non esisteva ed esisteva il mercato comune europeo (MEC o CEE).

Andando alla radice del tema euro e Unione Europea, naturalmente si può arrivare fino agli anni ’20 del secolo scorso e al paneuropa di Kalergi. Ma non voglio arrivare fino a quell’epoca, così come non intendo ripercorrere l’idea di Europa unita federale sotto spinta e impulso USA. Non andrò così indietro, ma mi focalizzerò sul 1970. All’epoca i Beatles impazzavano in mezzo mondo, in Italia governava la DC, ma nelle stanze della burocrazia europea già si pensava alla costruzione di un sistema monetario europeo (UEM), tanto che il Consiglio europeo proprio in quell’anno incaricava un comitato di esperti, capeggiati da Pierre Werner, di stillare un rapporto di fattibilità sulla predisposizione di un’unione monetaria, partendo dal precedente piano Barre (1969), che consisteva  in un memorandum contenente tre raccomandazioni, relative al coordinamento nel breve e nel medio termine delle politiche economiche e alla costituzione di un meccanismo di cooperazione monetaria e di assistenza finanziaria agli Stati membri.

Il comitato presentava il proprio piano nel 1970. Era un piano da realizzare in tre fasi, nel giro di dieci anni. L’obiettivo finale era (ma guarda un po’!) compiere definitivamente la liberalizzazione integrale dei movimenti di capitali e la determinazione irrevocabile dei rapporti di parità tra le valute, ovvero la sostituzione delle valute nazionali con una moneta unica. Esattamente tutto ciò che era predicato dal neoliberismo hayekiano (e nella dottrina delle banche centrali indipendenti): trasferire sul lavoro la svalutazione monetaria. E’ noto infatti che, a fronte della parità tra valute ovvero a fronte della introduzione di una moneta comune, la svalutazione “competitiva” viene scaricata sul costo dei fattori produttivi, e in particolare sul lavoro. Ciò garantisce la stabilità della rendita da capitale (cfr. art. 3 TUE) e la libertà per i rentiers di investire il proprio capitale dove è maggiormente remunerativo.

Al rapporto Werner non sarebbe comunque seguita l’immediata unione monetaria, che arriverà solo nel 1999, ma è chiaro che ormai le basi del progetto erano state gettate e sarebbero serviti quasi trent’anni, prima di vederla realizzata. Nel mentre, l’Italia si adoperava per demolire la propria Costituzione economica, attuando tutte quelle “riforme” preliminari all’unione monetaria. In sintesi: adesione allo SME (1979), divorzio Tesoro-Bankitalia (1981), adesione all’atto unico europeo (1986), adesione al trattato di Maastricht sull’unione monetaria (1992), attuazione delle direttive volte a privatizzare il sistema bancario-creditizio con contestuale liberazione della circolazione dei capitali (1993) e infine dismissione della valuta nazionale e ingresso nell’euro (1999).

Il processo di dismissione delle imprese di Stato (privatizzazione degli assets pubblici produttivi – v. IRI) attuato negli anni ’90, fu la ciliegina sulla torta nel progetto di ricollocazione dell’Italia in un contesto economico pre-industriale o se vogliamo para-industriale, nel ruolo di fornitore di manodopera a basso costo e di produttore contoterzista in alcuni settori che non fossero strategici per gli interessi dei fondi USA e dei franco-tedeschi (dominus dell’attuale Unione Europea).

Insomma, l’unione monetaria (UEM) non è un progetto nato nell’interesse delle nazioni europee, e non è nato di seguito al crollo dell’URSS e dei sistemi socialisti. No, è un progetto che viene da lontano, che la presenza del blocco orientale e la Germania divisa in due avevano solo rallentato per un certo periodo. La crisi, e poi il crollo dell’Unione Sovietica, rimise in moto (a pieno regime) il progetto, che opportunamente depurato dalle incrostazioni retoriche sulle magnifiche virtù del capitalismo globale, semplicemente ha da sempre mirato al ripristino integrale del sistema economico ottocentesco liberista, su scala sovranazionale (e dunque perseguendo le teorie haykiane sul superstato federale), con le dovute variazioni e gli adattamenti propri del nuovo contesto sociale globale e delle nuove tecnologie che rendono istantanei i trasferimenti dei capitali da un punto all’altro del globo e maggiormente pregnante il controllo sociale basato sui flussi informatici.

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