— Lettura in 3 min.
Il sistema congegnato nell’eurozona è tale che è impossibile per un paese crescere senza “germanizzarsi”, e cioè senza diventare una colonia tedesca (perché questo è l’unico modo per essere germanizzati), cedendo sovranità alla sovrastruttura europea.
No vi sembra così? Vediamo.
In Europa esistono regole precise – quelle di Maastricht – che però sono state di fatto superate ampiamente da quelle del Fiscal Compact (che benché non sia parte del corpus delle norme europee è comunque operativo per gli Stati che aderiscono all’euro – non è un caso che si chiami anche patto di bilancio). Ebbene, secondo queste ultime belle regolette, i bilanci statali devono tendere al pareggio, con scostamenti minimi del deficit (nell’ordine dello 0.5% per i debiti superiori al 60% sul PIL e dell’1% per quelli inferiori). Inoltre, come è già previsto nel trattato di Maastricht, gli Stati aderenti devono obbligatoriamente tenere il debito pubblico sotto il 60% del PIL. L’eventuale sforamento comporta un piano di rientro pari a 1/20 l’anno per l’eccesso.
E siccome le brutte regole, come i guai e i coglioni, vanno sempre in coppia, le regole anzidette devono essere lette unitamente al monopolio della moneta in capo alla Banca Centrale Europea, che però è indipendente e non è lender of last resort. Le implicazioni di questi limiti sono noti in letteratura: se il debito pubblico degli Stati membri subisce un attacco speculativo sui mercati, la BCE rimane alla finestra a guardare, finché lo Stato che sta affondando sotto i colpi dell’incremento dei tassi (leggasi alla voce spread), non si decide a chiedere aiuto.
Un aiuto – ed è qui che casca l’asino! – che l’Eurocrazia, nella sua infinita “bontà”, non elargisce gratuitamente, esigendo semmai un prezzo assai salato: la sovranità, che in concreto si traduce in una eterodirezione della politica economica di quel paese nei termini di tagli strutturali, aumento della pressione fiscale e, dulcis in fundo, la privatizzazione di tutto ciò che è privatizzabile: dagli aeroporti, ai porti, alla sanità, fino all’istruzione, passando per i siti storici e archeologici. Il tutto per rimettere in “sesto” il paese onde permettergli di ripagare quanto gli è stato prestato (v. infra) per essere salvato.
Il meccanismo è tanto chiaro quanto perverso:
- Si crea un sistema nel quale uno Stato rinuncia alla propria moneta e a una banca centrale nella pia illusione di contribuire alla costruzione del sogno europeo (appunto: un sogno).
- Si “costringono” dunque gli Stati a finanziarsi sul mercato privato e solo sul mercato privato, perché stampare moneta per finanziarsi è come imbrogliare (eh, già, questi puritani!).
- Il finanziamento sul mercato privato chiaramente limita o preclude politiche sociali redistributive.
- Anche per effetto del punto 3), si stabiliscono regole che vietano agli Stati – privati della sovranità monetaria – di fare politiche economiche espansive attraverso i limiti sul deficit e sul debito (v. supra); se queste regole vengono violate, per effetto delle regole di cui al punto 1) e 2), lo Stato non solo viene sanzionato, ma si trova esposto a un uragano finanziario che demolisce la sua “affidabilità”, precludendogli un indebitamento a basso costo, con un conseguente aumento del debito (causa gli interessi) e una maggiore difficoltà ad accedere ai finanziamenti (leggasi alla voce junk bond). Il tutto obbligando lo Stato “sputtanato” a chiedere aiuto all’Euroburocrazia, tramite il MES o altri meccanismi di “salvataggio” con corda e nodo scorsoio in omaggio, come il LTRO o l’OMT della BCE).
A quel punto, il gioco ricomincia da capo, e continua fino a che lo Stato in questione non sia stato “spolpato” del tutto e sia abbastanza piegato, da obbedire senza fiatare, rassegnandosi a essere una colonia che si accontenta di una crescita giusto un pelino sopra il livello di sopravvivenza, e dunque diventi serbatoio di lavoro a basso costo e terreno fertile per una colonizzazione commerciale, produttiva e finanziaria.
Ora, è evidente che questo sistema è stato approntato soprattutto – e non è un caso – per qui paesi che hanno una precisa connotazione macroeconomica: e cioè i paesi ricchi di piccole e medie imprese, con un’alta propensione al risparmio, con una ricchezza privata elevata e con uno Stato sociale avanzato (uno a caso: l’Italia), perché lo scopo finale, del resto, è noto: creare una macro-area economica, dominata da un’unica potenza economica, che abbia la capacità di competere sui mercati globali, sfruttando la svalutazione salariale interna che garantisca prezzi competitivi e stabili. Una macro-area che però arricchisca in particolar modo l’economia della capobranco a danno degli altri. Del resto, è arcinoto che in un pollaio non possono scorrazzare due galli.
Per raggiungere lo scopo è necessario un meccanismo che annichilisca gli Stati potenzialmente concorrenti. Sicché dietro le parole quali debito pubblico brutto brutto, deficit uguale spreco, corruzione ecc. ecc., va in replica uno spettacolo già noto nella storia: il tentativo di egemonia di un continente da parte di un unico paese; oggi non più attuato con le baionette e i carro armati, ma con il capitale finanziario e le giuste regole – le abbiamo viste – che fanno scattare la trappola della dipendenza dello Stato dal primo. E una volta che la trappola è scattata, per quello Stato non esistono che due strade: lasciarsi colonizzare, oppure fuggire. Alla Grecia è toccata la prima sorte. Noi saremo in grado di scegliere la seconda?